Negli sport: esaltare o umiliare, privilegiare o essere giusti nel giudizio
Si tratta di un’alternativa sempre presente nelle storie piccole e grandi dell’uomo.
Il Tour de France appena concluso offre diversi spunti di riflessione, soprattutto sui due o tre principali protagonisti della grande corsa a tappe, che sono i tre ciclisti più forti al mondo nell’attuale momento storico di questo popolare sport, che io amo in modo particolare per l’imprinting che mi diede (diciamo per “genetica spirituale”) mio padre Pietro. Parlo di Tadej Pogacar, Jonas Vingegaard e Remko Evenepoel.
Mio padre mi parlava di Gino Bartali (Pietro era un uomo abituato alla fatica del lavoro e del vivere, per cui era – quasi naturalmente – più “bartaliano” che “coppiano”, e amava dire che se non ci fosse stata la Guerra quei due si sarebbero divisi cinque Giri d’Italia e cinque Tour de France, e probabilmente sarebbe andata così, perché prima Gino Bartali e poi Fausto Coppi avevano già mostrato la loro superiorità sportiva su tutti gli altri ciclisti, italiani, francesi e belgi soprattutto.
Dopo il 1950 erano venuti gli anni, ancora di Coppi, ma anche di Fiorenzo Magni, di Louison Bobet, di Rik Van Steenberger, di Ferdy Kubler, del bel Hugo Koblet, e poi di Rik Van Looy e di Jacques Anquetil, ma questi ultimi due li cominciavo a conoscere anch’io da dodicenne, più o meno.
(Gian Piero Galeazzi)
Da non agonisti guardiamo questi sport dal divano, ascoltando i commenti dei giornalisti sportivi e dei cosiddetti opinionisti esperti, che sono di solito ex atleti. L’etica della comunicazione dovrebbe dettare un comportamento molto vigile nei commenti, in modo da evitare al massimo anche il benché minimo sospetto di tifoseria per questo o per quell’atleta. Nel caso del ciclismo e dei commenti durante il Giro d’Italia e del Tour de France, ho riscontato e riscontro spesso che così non è. Magari tra le righe dei discorsi, ma così non è.
Giudizi sommari ed enfasi retorica connotano il parlato corrente. Capisco che questi professionisti devono riempire ore e ore di corsa, ma piuttosto di dire o ripetere baggianate sarebbe meglio lasciare al silenzio il commento della corsa e su paesaggi che sono sempre (direbbero loro) “mozzafiato”, con espressione insopportabilmente trita.
Ciò che diventa insopportabile, però, è l’uso imperterrito di termini superlativi per definire gli atleti più forti: quello è un “fenomeno”, quello è un “alieno”, quello è un “extraterrestre”. Siccome è possibile commentare i commenti con X, mi sono divertito a proporgli di parlare anche dei “noumeni” kantiani, visto che loro usano ogni momento il termine “fenomeni”, spiegando loro che tutti gli enti si manifestano all’essere e che quindi sono tutti “fenomeni”: “fenomeno”, spiego, è ciò-che-si-manifesta, e pertanto tutti sono fenomeni, non solo i più forti, egregi signori Pancani, Cassani, Rizzato, Garzelli e Petacchi. Ma, ovviamente, non mi rispondono mai, anzi, li immagino indispettiti dietro le loro postazioni di lavoro.
Quanto più bravi, precisi e professionali rispetto a questi signori appena citati, sono i cronisti dei vari sport olimpici!
D’accordo che l’accezione corrente di “fenomeno” è sinonimo di eccezionale, straordinario, fortissimo, ma l’uso abusante rende il termine inascoltabile.
E costoro tifano, eccome tifano, nonostante il loro spergiurare continuo di non farlo, perché lo stesso spergiurare è una classica excusatio non petita... e dunque?
Il grande e grosso giornalista nella foto posta sopra non fa assolutamente parte dei furbacchioni di cui qui sto descrivendo le gesta. Galeazzi è stato un esempio virtuoso di equilibrio, nonostante la sua strabordante passionalità.
In questi ultimi anni due ciclisti si sono spartiti i Tour de France, Tadej Pogacar, sloveno, e Jonas Vingegaard, danese, due figure sportive e umane diversissime.
I due hanno caratteristiche molto singolari, come si dice – nella buona antropologia filosofica e nell’analisi fisico-anatomica – di ogni essere umano, irriducibilmente uniche.
I quattro citati sopra sono decisamente “pogacariani”, non ce la fanno a nasconderlo. Concordo sul fatto che il Tadej di Komenda lubianensis sia il più forte del mondo, ma non concordo sulle lodi sperticatissime, non solo del suo valore atletico-sportivo (oramai per costoro e per altri è il “nuovo Merckx”), ma anche del suo comportamento generale, che a me pare, non solo gioioso e cordiale, ma anche talvolta un po’ costruito e anche vanesio. Ma questo i commentatori non lo percepiscono.
Un altro aspetto che mi fa indignare sono le lodi che i commentatori riservano (da tempo) a un ciclista italiano, di cui riporto solo le iniziali, A.B., per il quale, se vince (meno di una volta all’anno in media), è un campione, specialmente delle corse di un giorno lunghe. Questo signore vive della gloria di un Giro delle Fiandre vinto un lustro fa (meritata, ma non esageriamo, suvvia!); se si ritira o arriva ventesimo o ottantesimo ha sempre qualche ragione scusante.
Mi indigna il constatare la parzialità vergognosa dei giudizi di questi signori, che non usano la stessa misura di lode o di critica per gli altri.
Occorre evitare, sia l’esaltazione del vincitore, sia la denigrazione del vinto, sia la parzialità di giudizio, se si vuole dare dignità a un lavoro prezioso e delicato come è quello del comunicatore mediatico.
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