L’America dopo Joe Biden
Ovviamente quanto scrivo in questo pezzo è da accogliere come un mio contributo personale in qualità di “cultore della materia”, poiché, per quanto capisco di politologia generale e di relazioni internazionali, a mio avviso, (il declinante, ma meritevole di grande rispetto) Joseph “Joe” Biden è stato uno dei migliori presidenti americani del secondo dopoguerra, assieme a Dwight Eisenhower, John F. Kennedy, Lyndon B. Johnson (ebbene sì, anche Johnson, che legiferò sui diritti civili e sul welfare, trovandosi la guerra del Vietnam sul tavolo, derivante dalle decisioni di Kennedy, ed ebbe la saggezza di rinunziare alla candidatura per la conferma alla Presidenza), George Bush Sr. e Bill Clinton. Non cito, come si vede Obama, perché mi sembra che il valore del suo “Obama-care” non faccia premio sulle sbagliatissime scelte di politica estera, ad esempio sulla Libia, quando si fece pilotare da quell’indescrivibile fellone di Sarkozy e sulla Siria, dove subì l’iniziativa di Putin e non seppe rimediare ai “crimini” politico-militari di George W. Bush, presidente scarso, che agì una cum il falsario matricolato e traditore del socialismo democratico Tony Blair (che Matteo Renzi, in una delle sue non poche fantasiose ipotesi politiche, voleva addirittura imitare).
(Kamala Harris e Joe Biden)
Ebbene sì, Biden è stato (è) un buon presidente degli Americani, anzi sarebbe stato eccellente, se non fosse per l’uscita disastrosa dall’Afganistan, uscita che comunque aveva deciso Trump. Lui Presidente, l’economia americana ha funzionato bene e anche l’occupazione. Non dimentichiamo che senza la sua costante concreta attenzione nel sostegno all’Ucraina invasa dalla federazione Russa (quante armi ha inviato l’America a Kijv?), in ragione dell’insufficiente sostegno europeo, ci ritroveremmo l’esercito russo sul confine polacco e forse già “dentro” i Paesi baltici. O no? Anche la capacità di trattare con i Russi per lo scambio di decine di prigionieri politici è stato un segno di capacità diplomatiche non banali, ben aiutato dal bravo Anthony Blinken. Ti ricordi, caro lettore, quando il Presidente Biden apostrofò l’uomo del Cremlino con l’epiteto di “killer”? Forse inopportuno al momento, ma veritiero per molti fatti, precedenti (Georgia, Cecenia, etc.) e successivi (Ucraina).
Che America sarà dopo Biden? Gli USA sono una Nazione composita come di più non si può. Cinquanta “Stati” con legislazioni molto differenti. Per iniziare a riflettere su queste differenze inizio dai codici penali, che prevedono ancora la pena di morte in circa una ventina di stati, mentre negli altri trenta, più o meno, le pene sono sempre temporali, con l’ergastolo e anche condanne a un numero di anni che obiettivamente superano di gran lunga l’ergastolo. Recentemente ho sentito di una condanna per un violentatore seriale a 174 anni di carcere! Un altro aspetto è che le pene qualche volta non sono definite in un numero preciso di anni/ mesi, ma all’interno di un range, che poi viene utilizzato, ad esempio da dieci a vent’anni, a seconda del comportamento del carcerato.
Provo a individuare le differenze principali che si danno tra i vari stati, a partire da quelle economiche.
L’economia americana è di tipo squisitamente capitalistico, organizzata prevalentemente in grandi imprese e società industriali. Si possono distinguere nettamente tre macro zone, l’East delle grandi città di impronta europea, il West di Los Angeles, San Francisco e la Silicon Valley, e il Middle West che comprende gli stati oltre i monti Appalachi fino alle grandi pianure oltre il sistema idrografico Mississippi-Missouri-Ohio. Le grandi aziende sono collocate all’Est e all’Ovest, così come le più grandi e prestigiose università, e anche nelle zone di Chicago e Detroit. A New York sta la più grande Borsa del mondo, nella celeberrima Wall Street, dove si svolgono un enorme numero e volumi di transazioni finanziarie, che pilotano molta parte dell’economia mondiale.
La grande distribuzione attesta le modalità del commercio al dettaglio USA. Walmart et similia, dove trovi tutto in grandi quantità, è la modalità caratterizzante. Gli Americani non hanno problemi a spostarsi anche di decine di chilometri per fare delle spese enormi per la famiglia. Chi può permetterselo, s’intende.
Le differenze razziali: bianchi (i w.a.s.p. i bianchi anglo-sassoni protestanti), neri e ispanici, nonché i rimanenti nativi. Queste sono le presenze “razziali”, negli USA. Uso il termine “razziali” nell’intendimento e accezione non razzistici. Fino al periodo del presidente Lyndon B. Johnson i bianchi erano “inizio, centro e fine” di ogni diritto. Dal 1965, almeno legalmente, i diritti sono stati de jure parificati, anche se non de facto.
Le differenze politiche: i due grandi partiti, il rosso è il Grand Old Party, i Repubblicani, quelli del presidente Abraham Lincoln, ma anche di Trump, una bella differenza, vero? Gli azzurri, a differenza dei colori italiani, per cui questo colore rappresenta Forza Italia, sono i Democrat, il grande partito progressista, che contiene di tutto. In America, i due partiti non sono esattamente la rappresentanza di destra e sinistra, rispettivamente, perché dentro questi due grandi contenitori ci sta di tutto. I rossi e gli azzurri non si distinguono neanche per la scelta sulla pena di morte, poiché vi sono sostenitori di questa orrenda pena in tutti e due i partiti. I sistemi elettorali, soprattutto quello per l’elezione del Presidente degli Stati Uniti d’America, sono molto diversi dai nostri, per cui a volte ci sfuggono certe logiche: ad esempio, quando Trump vinse su Hillary Rodham Clinton, ebbe meno voti individuali di lei (da tre a quattro milioni), ma ebbe più voti di “grandi elettori” che rappresentano, a loro volta, centinaia di migliaia di voti.
Biden, invece, batté nettamente Trump sia come numero di voti assoluti, sia come numero di grandi elettori a favore. Anche per questo il disegno criminoso che Trump tentò di attuare con la sollecitazione dell’assolto a Capitol Hill del 6 gennaio 2021 assume una gravità oggettiva ancora maggiore.
Le differenze religiose: la maggioranza degli Americani USA è protestante, e anche molto praticante, nell’infinità di chiese locali auto finanziate. Il weberiano “spirito del capitalismo” permea la vita americana, e anche la minoranza cattolica, presente nella East Coast e nelle aree a maggioranza ispanica non ne è esente.
Le differenze territoriali: est, ovest, Middle East, etc., sotto il profilo morfologico sono enormi: sia va dall’addensamento di grandi metropoli come sulla East Coast, alle grandi pianure un tempo zoccolate dai bisonti, alle grandi montagne, come le Rocky Mountains. I deserti presentano condizioni di sopravvivenza non meno ardue del Sahara; alcuni fiumi sono grandissimi, tra i maggiori del mondo, e i laghi del Nord sembrano mari, competendo per volume di acqua dolce con il siberiano Bajkal. Paesaggi d’infinito si presentano al viandante che sceglie di muoversi lungo strade senza fine, che attraversano il grande Paese da Est a Ovest e da Nord a Sud. Le grandi foreste del nord, nel Montana e nel North Dakota, preludono ai boschi boreali del Canada, mentre a sud il territorio statunitense si congiunge al Messico, diviso solo dalla fragile vena d’acqua del Rio Grande. Tramonti e albe, caldo insopportabile nella Valle della Morte e freddi inverni del Minnesota.
La cultura, la scuola, l’università: negli USA questo tema è complicato e controverso. Se i team della ricerca accademica sono tra i più efficienti del mondo, di contro, presi uno per uno, i laureati medi sono tra i più ignoranti del mondo. Questo fatto deriva dalla potenza delle strutture accademiche, che sono finanziate da capitali privati e che costano care alle famiglie degli studenti. Laurearsi a Harvard, a Yale, a Stanford o a Princeton non è da tutti. Una strada che molti provano per andare all’università, quelli che hanno mezzi fisici, è quella sportiva: chi gioca bene a basket o a foot ball, che è il loro rugby, può essere accolto gratuitamente fino alla laurea, un degree triennale che si consegue a ventuno anni, visto che il sistema scolastico USA fa terminare le High School un anno prima del nostro. High School che dovrebbero corrispondere alle nostre superiori, ai licei in particolare, ma che non hanno niente a che vedere con la preparazione che ancora, nonostante tutto, offrono i nostri licei! Due esperienze di cui ho avuto notizia: una compagna di liceo di mia figlia, andata a frequentare un anno scolastico negli USA, ha dovuto studiare tutta l’estate per recuperare i debiti “conseguiti” in greco e in latino; un’altra ha dovuto ripetere l’anno!
Woke e politically correct: i due termini sono correlati, per significare come gli Americani riescano a far convivere nella loro grande Nazione due estremi, quello di un conservatorismo religioso che neppure ci immaginiamo in Europa, e comunque molto più presente nel protestantesimo che nel cattolicesimo, e quello di (dico a fatica) “sensibilità culturali” tese a salvaguardare fino al fanatismo ciò che si ritiene offensivo per qualcuno. La cultura woke, ovvero “bada, stai attento!” va a colpire in modo stupidamente anacronistico e disforico anche fatti storici, il cui significato e senso sono già stati condivisi a livello globale, essendo (sia pure umanamente) oggettivi. Un esempio: l’in-accettazione della figura di Cristoforo Colombo, come “scopritore” dell’America (peraltro cosa, probabilmente, non del tutto veritiera), ma ritenuto oggettivamente responsabile dell’inizio coloniale della storia americana, per cui i militanti woke si impegnano a danneggiare, se non a distruggere, ricordi e monumenti del grande navigatore ispano-genovese, ovunque siano collocati. In Europa queste “sensibilità” si connotano e si replicano mediante dimostrazioni legate al tema del clima, con aggressioni a monumenti e dipinti di qualsiasi genere e specie, allo scopo di far parlare della protesta. Insensatamente si danneggiano beni pubblici, pensando di lottare per un bene condiviso e pubblico. Non solo ciò è logicamente contro-intuitivo, ma evidentemente idiota, a mio parere.
Cosa potranno fare ancora costoro quando decideranno che anche Amergio Vespucci debba essere negletto e scordato. Difficile che ottengano di cambiare il nome al continente. Mi pare che questa sia una nemesi della verità di cose che questi giovanotti e giovanotte non accettano. Se studiassero un po’ all’europea forse non agirebbero in modo così insulso e perfettamente inutile.
Il politically correct è una visione del mondo che funge da “cappello” del woke, e in parte ne è una conseguenza. Si tratta di una visione filosofica impaurita e impaurente. I “politicamente corretti” temono l’etimologia e la semantica linguistiche. Nientemeno. Temono di offendere qualcuno se utilizzano il lessico disponibile nei vocabolari. Sono autori e autrici di regressione culturale e di un pericoloso “analfabetismo di andata e ritorno”.
Gli USA e le armi: negli Stati Uniti d’America sono a disposizione delle persone e delle famiglie circa quattrocento milioni di armi da fuoco su circa trecento e trenta milioni di abitanti, sia corte, come le pistole, sia lunghe, come i fucili “semplici” e quelli “d’assalto”. Ogni anno negli USA si registrano circa 40.000 omicidi. In Italia circa 500, e sono già “troppissimi”.
E’ sociologicamente evidente che sussiste un rapporto statistico tra la disponibilità soggettiva di armi da fuoco e il loro uso per ferire o uccidere, e uccidere è molto facile, perché anche una ferita immediatamente non-mortale, può diventare tale, in ragione della rapidità o meno dei soccorsi e della situazione logistica.
Il dibattito attuale si colloca tra chi vorrebbe mantenere la situazione attuale (posizioni presenti in tutti e due gli schieramenti politico-partitici) e chi vorrebbe togliere dal libero commercio almeno i fucili d’assalto (idem), che di per sé possono far compiere stragi in pochi minuti. Basti ricordare i diversi massacri compiti in America in questi decenni e quel di Oslo (nell’isola di Utoya), dove l’estremista di destra Anders Behring Breivik uccise il 22 luglio 2011, in poco tempo, oltre settanta giovani socialisti. Si pensi alla civiltà giuridica della Norvegia, che condannò al massimo della pena l’assassino, cioè a ventuno anni di carcere, che tra poco tempo finiranno. Il signor Breivik ha anche potuto protestare per le condizioni della detenzione, mentre si sa che le carceri scandinave sono tra quelle più rispettose dei diritti umani, salvaguardando i detenuti da pene disumane e degradanti, anche nel senso di un aggravio dell’afflittività della stessa detenzione. L’Italia avrebbe, anzi ha molto da imparare dalla Norvegia, non per ridurre la gravità delle sanzioni previste dall’attuale ordinamento penale, quanto per garantire una maggiore rapidità dei processi, una certezza della pena e il rispetto dell’essere umano carcerato, che non smette di essere tale quando colpevole e sanzionato. Approfitto per segnalare che il 30% dei detenuti in Italia, è in attesa di giudizio, e che oltre metà di costoro solitamente risulta innocente. In America la situazione, sotto questi profili, è migliore di quella italiana.
Gli Americani “credono” a questo diritto di essere armati, perché la loro storia di “popolo bambino” (infatti sono un popolo fatto di popoli da solo duecento e cinquanta anni) glielo ha imposto fin dalla guerra di indipendenza dagli Inglesi, al punto da inserire questa norma nella Costituzione del 1779, auspici i grandi Presidenti George Washington e Thomas Jefferson. Si tratta del quasi “sacrale” Secondo Emendamento, disposto in testi differenti, ma di senso e significa identici.
Ad esempio, l’atto della Pennsylvania afferma:
«A well regulated Militia being necessary to the security of a free State, the right of the people to keep and bear Arms shall not be infringed». Non occorre alcuna traduzione.
Un cenno ad Alaska e Hawaii: cito questi due Stati quasi per rappresentare le enormi diversità presenti tra gli Stati Uniti d’America. Le isole del Pacifico rappresentano l’affaccio all’Oriente, sia dal punto di vista civile sia da quello militare. Un bellissimo avamposto contro il Grande Oriente (che non è l’omonima loggia massonica), un tempo rappresentato dal Giappone, e ora dalla Cina e anche dalla Russia, che dista dagli USA poche decine di chilometri tra Alaska e Siberia, con lo stretto di Bering. Penso che i Russi attuali siano molto dispiaciuti che lo Zar Alessandro II Romanov abbia venduto l’Alaska, quale enorme exclave, il più grande degli Stati Uniti d’America, e il meno abitato, agli USA del Presidente Andrew Johnson nel 1867.
E ora? A mio avviso, gli Americani dovranno rassegnarsi al sentimento diffuso che non li vede più, non solo come il (supposto) benefico “carabiniere” del mondo, in nome della democrazia rappresentativa, che secondo il pensiero dominante americano era giusto e buono esportare ovunque anche con i carri armati e con i jet da combattimento, ma che il resto del mondo pretende di decidere percorsi diversi per il proprio futuro. Certe supponenza e ignoranza, assieme con generosità e spirito di frontiera debbono trasformarsi in spirito di dialogo che genera rispetto per il diverso, anche se non è “bello e buono” (la qual cosa è tutta da dimostrare). Li si vede perfino rattristati e delusi per l’incomprensione del mondo, ma loro stessi debbono rendersi conto che non siamo più nell’immediato Secondo dopoguerra, e che il mondo è cambiato.
Gli USA restano sempre protagonisti della politica internazionale, e l’impegno americano all’estero, sia per gli aspetti militari, sia per quelli civili, economici e sociali sono di primaria importanza. Questo lo deve ammettere chiunque, anche coloro che sono pregiudizialmente anti americani, quelli che hanno dimenticato, tra altro di non poco significativo (il ruolo nella ricerca scientifica,a d esempio), l’importanza che gli USA hanno avuto storicamente per la sconfitta dei criminali regimi nazisti, fascisti e militaristi.
Certamente, l’America è anche quella della CIA che interviene contro il legittimo governo cileno di Salvador Allende mettendo su il generale Pinochet Ugarte, ad esempio. E’ anche quella che, sotto presidenti democrat, compie errori gravissimi come ai tempi di Obama con la Libia e la Siria. Delle stupide bestialità di Bush Jr. già ho scritto.
L’America, inoltre, è anche la “patria” delle cosiddette “Big Five” farmaceutiche che fanno pensare molto male, ma evitando di appartenere al complottismo da “scie chimiche” che ogni tanto emergono nel mare di stupidaggini diffuse sul web.
E infine un pensiero sul dilemma seguente:
a) se vincerà Donald Trump, sarò scontento, perché non ritengo che questo signore sia un personaggio degno dell’altissima carica, per ragioni essenzialmente etico-politiche, rappresentate soprattutto dai fatti del 6 gennaio 2021, ma anche dalla sua biografia, che NON è quella di un uomo onesto e perbene.
b) se vincerà Kamala Harris, sarò contento, anche se, come tutti, dovrò capire chi è (si va dunque, allo stato dell’arte, un po’ per esclusione). Lei ha fatto l’avvocato e il giudice. Immagino abbia un forte senso della giustizia, in generale. Non mi importa che sia (o che rappresenti) parte di minoranze etniche. Nel suo caso si tratta di una meticcia indo-caraibica. E poi neanche povera è, perché i suoi sono due studiosi benestanti.
Non avrà nessuna scusante se non sarà una Presidente tra il buono e l’eccellente.
Dico, con tutte le osservazioni in chiaroscuro del caso e comunque, viva l’America!, per quanto è popolo forte e democrazia imperfetta. “La democrazia è il peggior sistema politico, salvo il fatto che non ce ne sono di migliori” (W. Churchill), opinione che Platone non avrebbe condiviso, perché per il magno Ateniese, il miglior sistema politico sarebbe un “Governo di Filosofi“, opinione che penso di non condividere (del tutto).
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2 Comments
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Ineccepibile
Grazie carissimo amico Giorgio, buone giornate