Una famiglia sterminata. A Paderno Dugnano un diciassettenne uccide padre, madre e fratellino. In tempo reale, neanche il tempo di conoscere i fatti, i “sapienti” mediatici intervengono come un sol uomo, così. Crepet Paolo, psico-psichiatra, si esprime in questo modo “Ormai i padri non sanno che cosa pensano i loro figli” e ammette che bisogna chiedere all’Onnipotente che cosa sta succedendo; Mancuso Vito, teo-logo, afferma che “nelle famiglie si è insediato qualcosa di diabolico”; la sostituta procuratrice del territorio Ditrapani conclude con disarmata sicumera che “il ragazzo non ha dato spiegazioni logiche”. Suvvia, dottoressa, come fa a pensare che un soggetto del genere, dopo aver fatto quello che ha fatto e nelle condizioni in cui si trova (che né Crepet né Mancuso conoscono), possa fornire “spiegazioni” logiche e coerenti? E se fosse che ormai da tempo l’esaltazione delle “emozioni” di cui ognuno che parla si riempie la bocca, a scapito del “ragionamento”, sia uno dei fomiti di una malattia mentale di tipo “sociale”? Caro lettore, fai caso a come vengono narrati gli eventi sportivi, dove la parole “emozione” è emessa, o suggerita, ogni tre per due? Io sono da tempo nauseato ai limiti del vomito da questo abuso del termine “emozioni”. La società è affetta dalla “malattia” dell’emozionismo, che è grave. Connessa a questa patologia, sviluppatasi negli ultimi tre o quattro decenni, ve n’è un’altra, quella che si può chiamare “cultura della pretesa”, sorta da una malintesa declinazione dell’attività desiderante, che, prima Platone, e nei nostri anni lo psicanalista e filosofo Jacques Lacan, hanno studiato a fondo
…e il titolo potrebbe anche – per il momento – bastare nella trattazione di questa orribile e in-spiegabile tragedia dell’uomo, che “umana” (secondo l’accezione classica) non è.
(Paderno Dugnano)
La cosa che mi stupisce è la velocità di reazione, la “capacità” di questi signori di intervenire su una tragedia non-spiegabile, non logica, non argomentabile, con tanta celerità e sicurezza nel dire.
E’ evidente al culto e all’inclito che non-si-può-spiegare, e neppure com-prendere quanto accaduto per mano del ragazzo.
Spiegare significa togliere-tutte-le-pieghe del lenzuolo-fatto delittuoso e ottenere un quadro dis-piegato e leggibile del crimine; com-prendere significa prendere-dentro un orizzonte di senso abbastanza generale quanto successo, perché quanto successo è in-sensato.
Almeno sulla base dell’agire umano che va per la maggiore, grazieadio, nonostante i media siano solo capaci di dare notizie negative o nefaste, mentre quotidianamente trascurano l’immensa congerie di cose benedette dalla grazia umano-divina, che pure accadono per buona volontà e bontà d’animo. In Italia e perfino in… Africa, sulla quale si sente parlare solo il linguaggio del premiato film “Io, capitano” (che non guarderò), oggi non si può né com-prendere né, tanto meno, spiegare alcunché.
Ho ascoltato anche don Burgio, il cappellano del Beccaria di Milano, dove ora è recluso il giovane, che non si è allontanato dalle solite considerazioni da petitio principii. Ma che altro poteva dire? Perché questo vieto giornalismo odierno deve nutrire il suo pubblico con qualsiasi banalità se non idiozia?
Hanno interpellato anche l’ordinaria di psicologia generale de La Sapienza, che non ha potuto altro dire che il movente generico di un fatto come questo non può che uscire dalla triade seguente: denaro (come nel caso di Pietro Maso, ma qui non è il… caso), odio inespresso e disagio mentale. Meno male che la professoressa non si è anche lei lanciata nelle già pubblicamente espresse ipotesi crepetiane o mancusiane. L’umiltà non guasta.
Non è possibile dire cose sensate, ora, con gli elementi di conoscenza attualmente a disposizione, non dico del pubblico, ma nemmeno delle autorità preposte alla gestione del caso.
Ora, ci informano i tg, che il ragazzo è affidato a degli psicologi. Buon lavoro.
Mi chiedo se l’équipe incaricata sia in grado di partire ab initio, cioè dalla psiche-anima profonda, dai “valori”, dai linguaggi, dagli orizzonti cognitivi e morali, introiettati da Riccardo C.
Valori, linguaggi, orizzonti cognitivi e morali che devono fare parte del dialogo familiare, nei dovuti modi e con un proporzionato lessico, fin dalle età più tenere dei figli. Cosa che non si fa da tempo, in generale.
E ciò costituisce uno spregio e uno sfregio all’intelligenza individuale e sociale, perché non è più coltivata né in famiglia né a scuola, dove si preferisce insistere su un dirittismo purchessia, senza nozione alcuna del dovere come specchio morale pedagogicamente necessario di ogni diritto.
Ha ucciso perché (ha detto quasi subito) che “si sentiva un estraneo…”, e dunque uccidendo i suoi si sarebbe liberato da quel senso insopportabile di oppressione, che provava in casa e anche fuori. Eppure aveva buoni voti a scuola e godeva di stima tra compagni e docenti. I vicini la solita solfa litanica inascoltabile “brave persone, una famiglia modello“.
Tecnicamente (mi si perdoni la freddezza terminologica) aggiungo questo: non capisco come suo padre, un cinquantenne di un metro e ottantacinque sia stato sopraffatto così facilmente da un ragazzino molto più minuto e certamente meno forte di lui. Colpito da dietro a tradimento? talmente stupito dal gesto del figlio e dalla scena da rimanere incredulo e paralizzato?
Certamente ora Riccardo C. verrà custodito, analizzato, studiato, protetto, processato e giudicato. E magari avrà un percorso giudiziario analogo a quello della signorina Erika De Nardo che ventidue anni fa uccise madre e fratellino in quel di Novi Ligure, e poi poté studiare, laurearsi e scomparire alla vista, dopo una decina di anni di carcere, e forse meno.
Un’osservazione sul linguaggio “avvocatizio”: ascoltare il legale del ragazzo viene un senso di desolazione, perché dà del “legalese” la più sciatta dimostrazione di inefficacia e di inutilità, e più non dico.
E se fosse che ormai da tempo l’esaltazione delle “emozioni” di cui ognuno che parla si riempie la bocca, a scapito del “ragionamento”, sia uno dei fomiti di una malattia mentale di tipo “sociale”? Caro lettore, fai caso a come vengono narrati gli eventi sportivi, dove la parola “emozione” è emessa, o suggerita, ogni tre per due? Io sono da tempo nauseato ai limiti del vomito da questo abuso del termine “emozioni”!
Dagli spot pubblicitari alle cronache sportive si sente solo la parole “emozioni” e domande del tipo “Sei emozionato?”, “Che emozioni hai provato?” E le risposte sono a tono: “Sono emozionatissimo, emozionatissima, certo, queste emozioni... etc. etc.” Dai tempi della bellissima omonima canzone di Lucio Battisti, questa parola è diventata un cliché, un comun denominatore dell’espressione psichica, … e ora, secondo me, è diventata uno stigma.
Il ragionamento, la riflessione non sono più proposti da alcuno, se non da esigue minoranze di filosofi. Le emozioni lasciate da sole, abbandonate ai loro effetti, senza alcun “governo politico della ragione” sull’agire umano (Aristotele), come ben sapevano e insegnavano gli antichi “Stoici”, pensatori come Lucio Anneo Seneca e l’imperatore Marco Aurelio.
Qualcuno potrebbe obiettarmi che anche un grande filosofo (e, aggiungo, matematico e fisico) come Blaise Pascal sosteneva che “il cuore ha delle ragioni che la ragione non conosce“… ebbene sì, ma Pascal non sosteneva certo che l’uomo dovesse, perciò, spegnere l’uso della ragione. O no?
La società è affetta dalla “malattia” dell’emozionismo (o emozionalismo), che è grave. Con ciò non voglio affermare che le emozioni devono essere spente, poiché un essere umano incapace di emozionarsi (alessitimico), è spiritualmente “morto”, ma le emozioni non possono governare tutta la vita psico-spirituale dell’uomo.
Connessa a questa “patologia”, sviluppatasi negli ultimi tre o quattro decenni, ve n’è un’altra, quella che si può chiamare “cultura della pretesa”, sorta da una malintesa declinazione dell’attività desiderante, che, prima Platone, e poi nei nostri anni lo psicanalista e filosofo Jacques Lacan, hanno studiato a fondo, spiegandoci che senza desiderio di amare, di fare, di agire, di muoversi, in definitiva, di vivere, per l’uomo non c’è speranza, ma ciò deve avvenire nei limiti del dialogo inter-soggettivo e del rispetto dei confini di ogni libertà individuale e di ogni progetto di vita..
Spero che il cappellano del Beccaria don Burgio, gli psicologi e il richiesto nonno spieghino bene di che cosa si tratti al povero (in umanità) Riccardo Chiarioni, che voleva auto-nomizzarsi e affrancarsi dalla famiglia, e perciò la ha sterminata, come se solo lui avesse diritto di vivere bene e loro no. Progetto, prima malvagio e poi folle.
Non riesco ancora a provare il minimo di comprensione per questo essere umano.
E infine, sono convinto che, se sono vere le cose proposte sopra, un’educazione senza chiarezza sul rapporto necessario tra diritti e doveri, assieme con un’esagerata sottolineatura della dimensione emotiva genera, a mio avviso, il terreno di coltura per menti che non riescono a sopportare più nulla che non sia immediatamente gradevole e gratificante.
E ciò mi sembra non solo – cognitivamente e moralmente – assai poco, ma pericolosissimo.
E se si dovesse scavare e ripartire proprio da qui?
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