“Lo dice lei, lo dice lui… allora è vero”. Psicologia delle masse (grandi e piccole) e manipolazione; l’origine del marketing e le buone prassi della gestione
“Lo dice lei, lo dice lui… è vero allora…”. Quante volte abbiamo sentito e sentiamo questa frase?!
Se lo dice lui, se lo dice lei è vero. Si tratta del famoso e medievale “ipse dixit” (“lo ha detto lui medesimo”), per cui se un potente formulava una certa affermazione bisognava credergli, perché la verità apparteneva sempre al potere, fosse quello politico o quello religioso. Diversificare la propria verità da quella ufficiale, poteva significare il rogo. Chiedere anche (fo per dir) a frate Filippo (Giordano) Bruno da Nola (per credere), che bruciò in Campo dei Fiori a Roma nel febbraio del 1600.
Nelle prime accademie, almeno fino alla rivoluzione filosofico-scientifica dei secoli XV – XVII con Galileo e Descartes valeva la medesima cosa. Se il geocentrismo era stato sostenuto da Aristotele, allora la Terra era al centro del sistema solare. Aristarco di Samo che, contemporaneo dello Stagirita, sosteneva l’eliocentrismo, non era importato ai più per duemila anni. Con l’eccezione dell’umile frate francescano Roberto Grossatesta da Oxford, che a metà del XIII secolo osava sostenere la tesi di Aristarco, ma il pio Bighead era un semisconosciuto e non disturbava alcun prelato potente.
L’ignoranza diffusa (come è in parte anche ai nostri tempi) poi la faceva da padrona. In generale le idee giravano e venivano sostenute senza interpellare più di tanto la logica aristotelica, che era molto più affidabile dei suoi studi scientifici, perché era “naturale”: se A allora B, se B allora C. Ed ecco il sillogismo dimostrativo: a) l’uomo è razionale, b) il razionale è libero, c) l’uomo è libero.
Con la modernità si affacciarono alla grande storia le masse. La Rivoluzione Francese aprì l’età contemporanea ponendo (non senza contraddizioni) i diritti dell’uomo al di sopra di ogni principio di autorità.
Alla fine del XIX si svilupparono, in parallelo, studi sempre più approfonditi sul “funzionamento” della mente umana utilizzando il metodo clinico, che era sconosciuto alla filosofia naturale precedente. Figure come il dottor Charcot a Parigi e il dottor Freud a Vienna esplorarono i mondi profondi e oscuri della psiche, “inventando” (nel senso etimologico di trovare, scoprire) l’inconscio. Qualcuno, però, si accorse che mentre l’essere umano singolo riesce a pensare, a riflettere, utilizzando tutte le risorse intellettuali che ha a disposizione per agire con logicità, gli esseri umani in gruppo – piccolo o grande che sia – perdono in buona parte questa facoltà, quasi dimenticandola, e si ritrovano quasi vittime delle emozioni.
Gustave Le Bon filosofo, psicologo e antropologo francese fu il primo a sistematizzare questi studi con il suo libro La psicologia delle folle.
Gustave Le Bon
Le Bon iniziò le sue ricerche appoggiandosi anche ad altri studiosi, come Georg Simmel, filosofo e sociologo, Gabriel Tarde e Scipio Sighele, criminologi, ma apportò a queste conoscenze un contributo originale ed essenziale, con le sue teorie sull’agire sociale delle masse e di gruppi più piccoli.
(Gustave Le Bon)
Le Bon fu testimone di almeno due grandi eventi di massa: la Comune di Parigi nel 1871, che gli mostrò una rivoluzione popolare e l’affaire Dreyfus, quando un ufficiale dell’esercito francese, ebreo, fu ingiustamente accusato di spionaggio militare, fu processato e condannato a una grave pena detentiva, e infine assolto, non prima di avere suscitato enormi emozioni popolari e due schieramenti contrapposti tra colpevolisti e innocentisti. Ognuno di questi eventi galvanizzò larghi segmenti della popolazione. Parigi a quel tempo era una delle più grandi e industrializzate città d’Europa, fronte di forze di antisemitismo e di estrema destra. Di fronte a questi eventi Le Bon concepì il concetto di “folla”, una nuova entità emergente dall’unione degli individui che formano un nuovo corpo fisico, ma anche una collettività “incosciente”.
Edward L. Bernays
Austriaco, ebreo, era nipote di Sigmund Freud, si occupò tutta la vita di propaganda (peraltro termine che dà il titolo al suo libro più importante). Bernays aveva intuito che, se era possibile usare la propaganda ai fini di guerra (si era negli anni della Prima Guerra mondiale) favorendo l’arruolamento dei giovani, era sicuramente possibile usarla anche in un contesto di pace. Dal momento che il termine propaganda era malvisto per via del suo largo uso da parte dei nazisti tedeschi, Bernays decise di trovare un nome alternativo per definire la sua attività, nominandola inizialmente “Direzione pubblicitaria” e stabilendosi in un piccolo ufficio a Broadway a New York.
Sin dalla fine del XIX secolo, l’America era caratterizzata da una società di massa, industrializzata, con milioni di abitanti raggruppati nelle città. Bernays voleva trovare nuovi modi per condizionare e controllare, anche alterando il modo in cui queste nuove masse pensavano e sentivano. Famosa è la sua campagna per convincere le donne a fumare, per apparire più moderne ed autonome, quasi cercando di suscitare una nuova sensibilità politica progressista. Per farlo, si rivolse agli scritti di suo zio Sigmund Freud. Mentre era a Parigi, Bernays aveva mandato allo zio dei sigari cubani in regalo. Per ricambiare, Freud gli mandò una copia della sua Introduzione alla psicoanalisi. Bernays la lesse e rimase affascinato dall’immagine di forze irrazionali interne alla mente umana, e si chiese se fosse possibile guadagnare soldi manipolando l’inconscio.
Un concetto fondamentale che Bernays riprese da Freud fu che “c’è molto di più dietro la scelta di prendere le decisioni, non solo a livello individuale, ma anche in modo più importante, a livello di gruppi“, con l’idea che l’informazione guida il comportamento. Formulò, in tal modo, l’ipotesi che era necessario individuare ciò che doveva evocare l’emozione irrazionale della gente. Questo mise Bernays in una situazione molto diversa da quella di altri colleghi attivi nel suo campo, e anche della maggior parte dei funzionari governativi e dei dirigenti dell’epoca, che sostenevano bastasse bombardare la gente con fatti e informazioni e questi avrebbero ascoltato e acconsentito.
In quegli anni Walter Lippman era probabilmente il più influente commentatore politico degli Stati Uniti, ed essenzialmente affermava che il meccanismo di base della mente della massa è l’irrazionalità, l’assenza della ragione, l’animalità. Secondo la sua visione, la gente che si trasforma nel “branco selvaggio”, in gregge, non è guidata dalla mente ma dalla spina dorsale. Con questa idea di istinti animali, istintive pulsioni inconsce che stanno in agguato sotto la superficie della civiltà, iniziò ad occuparsi di psicologia per poter capire i meccanismi con cui funziona la mente della gente, con l’intenzione specifica di capire come poter applicare quei meccanismi a strategie di controllo sociale.
Edward Bernays era affascinato dalle idee di Lippman e cercò di usarle per promuovere sé stesso. Negli anni venti, cominciò a scrivere una serie di libri per sostenere di essere stato il primo ad aver sviluppato le tecniche che Lippman proponeva di applicare. Stimolando i desideri interiori della gente e poi soddisfacendoli con prodotti di consumo, stava creando un nuovo modo di governare la forza irrazionale delle masse, che lui chiamava “ingegneria del consenso”, la radice di quell’attività che nei decenni successivi e fino a noi sarebbe stata chiamata, prima réclame e successivamente marketing.
Tornando al nostro tema, basti pensare alle manifestazioni, ai tumulti, alle jacqueries, che non sono rivoluzioni, ma rivolte, ribellioni, come quelle dei contadini fin dal Medioevo, oppure ai fenomeni presenti negli stadi sportivi.
Conosciamo questi fenomeni nel piccolo o medio delle strutture organizzate attuali? Ad esempio nelle aziende, di qualsiasi dimensione siano?
Ebbene, anche nelle aziende si danno talvolta, in momenti di particolare tensione, fenomeni analoghi, per cui la ragione riflessiva, la logica argomentativa, il porre la razionalità dei fatti a governo del dialogo e dell’agire, vengono messi in mora da comportamenti poco costruttivi e ottusamente conflittuali e personalistici.
Si tengano in conto anche gli studi sopra citati, quando si hanno responsabilità gestionali, a tutti i livelli, altrimenti si perdono di vista i principi sani della gestione delle persone, che si basano sulla pacatezza del ragionamento, sul rispetto reciproco e sul dialogo sincero.
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