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Una voce pacata e grave pronunzia i nomi di chi è stato ucciso dal sistema “industriale” di morte, offerta a chi percorre il sottopassaggio che conduce al “Campo”.
(Rudolf Hoess prima dell’impiccagione)
Sono i nomi dei morti ad Oswiecim, ammazzati in qualche modo, in un crescendo spaventoso di crudeltà. A Cracovia per varie ragioni, sono riuscito a recarmi ad Auschwitz per affrontare le immagini e l’ambiente di quello che nel lustro 1940-1945 i nazisti fecero all’uomo. Homines sapientes contra homine sapientes, questo descrive l’antropologia fisica, la paleoantropologia.
Poche volte come in questo caso il linguaggio scientifico è stato così contro intuitivo, così stonato, così assurdo: “homines sapientes“. Sapiens etimologicamente significa sapido, per cui – in metafora – sapiente. Sapiente, ma non saggio, non buono. Malo. Ma non “banalmente malo”, come ha scritto Hannah Arendt (troppo giornalista e poco filosofa in questo caso), perché il male non è mai banale, neppure quando è avvolto nella burocrazia, come nel caso di Adolf Eichmann.
E’ stato possibile fotografare ambienti e immagini quasi ovunque, ma alcune di queste erano talmente forti che non sono riuscito a riprenderle, e alcune altre risultano mosse perché mi tremava la mano, mentre piangevo silenziosamente in fondo al gruppo.
Sarei dell’idea di rendere parte del programma delle quinte classi superiori la visita ad Auschwitz, come formazione all’umanità tramite la disumanità, non solo per documentare la barbarie assoluta, ma anche perché “cose disumane” accadono tuttora, senza che ora e qui le citi, perché a tutti note, e altre cose disumane, analoghe anche se non identiche all’orrore nazista, sono state commesse nel mondo in ogni tempo, e ancora di più nel secolo più tremendo di tutti, il XX, dall’uomo più tecno-scientificamente evoluto e sazio.
La visita è drammatica nel “vedere” le cose, gli ambienti, le costruzioni, gli spazi, e nel racconto di chi ci accompagna, che evita toni melodrammatici, scegliendo cifre narrative tra il consapevole e lo scettico sulla “natura umana”. Essere “naturali” significa anche costruire e utilizzare Auschwitz, se la natura belluina non è più governata da una morale ispirata al valore della vita di ogni essere umano, e dalla nozione etica condivisa dell’uguaglianza in dignità di ciascuno rispetto a ciascun altro.
Il razzismo giuridico e fattuale è il genitore del mostro-assassino di Auschwitz, laddove la parola “mostro” significa direttamente qualcosa-che-si-mostra: in questo caso l’uomo stesso, al suo peggio assoluto.
La colpa di ogni razzismo è la colpa dell’uomo che cessa di guardarsi allo specchio per riconoscersi uguale, identico a ogni altro uomo. Identico non per genetica, ambiente ed educazione, ma identico per omogeneità fisica, psichica e spirituale. Torna l’esigenza di condividere un’antropologia filosofica umanistica ed eticamente consentanea nei “valori” che fondano la vita e la convivenza, riconoscendo il diritto di ogni essere umano di essere rispettato e tutelato in quanto essere umano.
Uno dei direttori del Campo, non ricordo chi, ma certamente si tratta di un pensiero condiviso con i suoi consimili, ebbe a pronunziare queste parole: “Il crimine degli Ebrei è solo quello di essere nati“. Una colpa metafisica, insuperabile, ineluttabile, se non con la morte mediante assassinio.
Nel racconto che ascolto lungo la via viene sottolineata la responsabilità dei crimini del nazismo istituzionale, da Hitler in giù, condivisa anche da parte del popolo tedesco, specialmente dagli industriali del tempo, dai Krupp alla Siemens alla Farben, attuale Bayer, e altri, che costituirono la struttura economica portante del nazismo, e che hanno anche usufruito del lavoro schiavizzato degli internati nei campi di concentramento destinati a morire.
Meravigliosa eccezione quella di Oskar Schindler e quelle di coloro (uno di loro Gino Bartali) che sono riconosciuti come Giusti tra le Nazioni, citati nello Vad Yashem di Gerusalemme, istituito in memoria della Shoah.
Si sottolinea che nel 1933 Hitler fu eletto democraticamente, salvo poi prendersi tutto il potere in un solo anno, il 1934, con l’inganno e la prepotenza, coadiuvato da un gruppo di sodali altrettanto malvagi, opportunisti e crudeli al pari di lui (e se non lo erano abbastanza o gli facevano ombra come Ernst Roehm, da eliminare ed eliminati), i vari Himmler, Goering, Goebbels, Bormann, Heidrich, per tacere dei boia delle SS, che eseguirono praticamente i massacri, dalle fucilazioni di ebrei di Babi Yar a Kijv alle uccisioni di massa nei campi di sterminio di cui Auschwitz rappresenta il culmine di indicibile efferatezza.
A fatica osservo i capelli di centomila donne ebree rimasti lì, perché le SS, le Schutzstaffel (squadre di protezione, significa) non riuscirono a inviarli completamente alle industrie tessili come materia prima; le scarpe lasciate lì da chi doveva indossare zoccoli a volte spaiati; le foto di bimbi e donne ignare dell’immediata funesta sorte. Un’ora dopo l’arrivo si muore, se si è mandati nella fila degli inabili al lavoro: lo decide un medico vero, che invece di tutelare la vita (come dovrebbe aver giurato di fare) decide per la morte di un suo simile.
A Birkenau (bosco delle betulle! dolcissimo significato, orrendo rimando simbolico), la fabbrica della morte di livello mega-industriale colpisce la canizie di un uomo che sembra chiedere in che fila porsi e la SS gli indica una fila, e lui appena arrivato, ignaro va immediatamente alle “docce”, cioè alla camera a gas e al crematorio.
Colpiscono le donne nude, fotografate di nascosto da un sonderkommando (questi disgraziati dovevano occuparsi materialmente delle uccisioni di massa), che corrono verso le “docce”, corrono perché si vergognano della loro nudità, e perché hanno una sete disperata e pensano di bere facendo la doccia. Colpisce la foto delle quattro bambine “affidate” al “dottor” Mengele. Non le ho fotografate perché ho sentito venir meno la mia volontà.
Con me ci sono tanti giovani, due terzi del gruppo, e sono silenziosi. Li guardo e penso che c’è speranza. Mi sforzo di crederci.
Colpisce la forca mobile in fondo a un corridoio, già pronta per mostrare cosa capita a un “riottoso”. Riottoso alla morte. Colpiscono le camere dell’inedia (morire di fame) e del soffocamento (morire per mancanza di ossigeno), dove si trovò il padre (San) Massimiliano Kolbe che lì in quel modo fu ucciso al posto di un padre di famiglia.
Colpiscono anche le rovine di Birkenau, dove le SS hanno fatto esplodere le principali camere a gas e crematori per cercare di distruggere le prove dell’abominio.
In fondo al campo un vento leggero muove i rami e le foglie delle betulle, sapendo che oltre il bosco ci sono fosse comuni dove venivano accesi i roghi dei corpi ammazzati, anche se questo dire è improprio, i cui fumi arrivavano ogni tanto alle casupole dei contadini polacchi, che all’inizio non capivano, ma a volte se capivano forse non erano molto scontenti che in quel posto morissero degli Ebrei. Il razzismo si è sempre nutrito di connivenze.
Straniano gli elenchi di nomi sotto le foto riprese ai prigionieri, che hanno espressioni àtone, a volte stupite, talora spaventate, abbruttite dagli stenti, che comunque dopo un primo periodo i carcerieri smisero di fare sostituendole con i tatuaggi. Un bimbo sopravvissuto è stato tatuato sulla piccolissima coscia, perché il tatuaggio non stava sul braccino. Una bimba dallo sguardo stupefatto ci guarda dal gruppo: è una piccola non-morta, che fino ai suoi novant’anni è tornata lì a spiegare ai viandanti muti che quella lì era lei a quattr’anni.
Disperano, nella difficoltà di credere a ciò che i nostri occhi vedono, i barattoli di Zyclon B (il nome commerciale di un agente fumigante a base di acido cianidrico) utilizzato come agente tossico di cui pochi chili bastavano per uccidere duemila persone, prodotto fornito da quella ditta di Ludwigshafen che ai giorni nostri si chiama Bayer, dove è stata inventata l’aspirina.
Lascia attoniti il filo spinato tra-passato da 400 volt, macchina di morte sulla quale si sono schiantati prigionieri ebrei e di altre 22 nazioni ed etnie, assassinati.
Le valigie e le borse in cui file interminabili di esseri umani, che scendevano dai treni di Eichmann dopo giornate o settimane di viaggio, tenevano ciò che nelle more della cattura erano riusciti a raccattare da casa, vuote, perché il contenuto era partito per la Germania e poi distribuito a cura di enti di “beneficenza” delle SS, sono ammassate in informi cumuli, così come gli oggetti di casa, le pentole e le posate. I denti d’oro, invece, venivano strappati per farne lingotti da inviare alla Banca di Stato del Terzo Reich, che avrebbe dovuto essere millenario negli intendimenti del Führer. E cataste di occhiali ricordano le migliaia di coloro che li indossavano per vedere la vita prima della cattura.
Si vede tra rami di querce e di betulle la casa dove abitava Rudolf Hoess con i suoi cinque figli e la moglie, il killer di mezzo milione di ebrei, colà, ad Auschwitz, impiccato nel 1948, dopo regolare processo, a monito. Lì, su un piazzale sopraelevato, c’è ancora la forca di quell’esecuzione, orrenda come gli atti commessi da chi vi è morto appeso finché non fu giunta la sua morte.
Camminando per il Campo ripenso alle parole dei filosofi Samuel Burke e George Santayana, che un gentile professore mi ha citato, quando sono stato ospitato nella nobilissima Università Jagellonica, lui polacco, figlio della bellissima terra dove l’odio, proveniente dalla nazione più colta d’Europa, ha imperversato: “L’uomo che si dimentica del male fatto nella storia, è destinato a ripeterlo“.
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