Villa Ottelio Savorgnan sul fiume Stella ad Ariis di Rivignano

Dall’uso (un pochino) idiota dell’avversativa “piuttosto che” invece della congiunzione “e”, fino all’inutile francesismo “rimarcare” (da “remarquer”)

Noi Italiani, “padroni” talora non meritevoli di una lingua meravigliosa, e melodiosa, semanticamente profonda e varia, e colorata di mille sfumature, siamo “adusi” (che bello, no?) all’esterofilia più vieta, oppure a utilizzi abnormi, e sbagliati grammaticalmente, di termini ed espressioni italiane.

Circa l’esterofilia, ci piace sempre più mutuare dall’inglese, specialmente negli ambienti economici e lavorativi, parole e termini che potrebbero tranquillamente essere mantenuti in italiano. Un esempio? Sento dire ovunque nelle aziende “flash meeting“, che potrebbe essere tranquillamente sostituito con “riunione breve“, stesso numero di lettere, e quindi non è neanche un problema di economia energetica. Mi si spiega (ma lo so molto bene da solo), che l’uso del sintagma inglese è indispensabile quando ci sono interlocutori non italiani, ad esempio nei gruppi multinazionale e con clienti e fornitori esteri, per cui si usa l’inglese come koiné, o lingua (di uso) comune.

Due millenni fa erano koiné il greco e il latino in tutto il Mediterraneo, e nelle terre circonvicine, dalle Isole Britanniche all’Indo, dal Chersoneso oggi conteso tra Russia e Ucraina al Fezzan libico. A Oriente lo erano soprattutto il sanscrito e il mandarino.

Concordo, di contro, sull’uso comune del termine leadership, che richiederebbe, in italiano, una circonlocuzione di svariate parole, come “capacità di condurre persone a qualche fine mantenendo la responsabilità del risultato“. Potrei continuare con altri esempi, ma passo al tema principale.

Un fatto che invece mi fa molto inquietare (il verbo giusto è un altro!) è quello di un insegnamento accademico totalmente in inglese, già usuale in alcuni atenei o facoltà italiane. Lo trovo assurdo e impoverente, perché, se l’inglese è una lingua che oggi si deve conoscere possibilmente in modo fluente, e quindi lo si deve insegnare e imparare, non usare più l’italiano significa rendere molto più povero l’insegnamento, che così è deprivato di un patrimonio linguistico lessicale non traducibile, perché fatto della storia espressiva e del, vorrei dire, genius loci o fundamentum inconcussum (fondamento incontrovertibile) della lingua, che è – per definizione – intraducibile, ovvero solamente “interpretabile” tramite l’ermeneutica linguistico-filosofica.

Leggendo un articolo divulgativo concernente indicazioni dell’Accademia della Crusca (a cura di Fausto Raso), a tutti (spero) nota per il suo insostituibile lavoro di vigilanza sulla lingua italiana, mi soffermerò su alcune espressioni utilizzate in modo errato, improprio o sgradevole (la qual cosa non è di poco conto, a mio avviso) in scritti e nel parlato quotidiano.

Proviamo ad esaminare le seguenti parole od espressioni:

Il verbo sedurre, cioè “condurre-a-sé”, nel senso di affezionare a sé stessi una persona, ad esempio nell’innamoramento, è utilizzato spesso anche per dire che un libro, un film, un paesaggio (ci) è piaciuto tanto. Ad avviso dell’Accademia della Crusca (e pure mio) sarebbe meglio utilizzare questo verbo nel senso e nell’accezione propri, evitando di “metaforizzarlo” per dire apprezzare, piacere, ammirare: ad esempio, ho apprezzato quel libro, quel libro mi è piaciuto, etc.

Qualcuno utilizza il termine paracadute, ovviamente al singolare, ma poi lo pluralizza con paracaduti. E’ evidentemente sbagliato, poiché si tratta di qualificare un oggetto che opera per evitare le cadute, appunto, laddove il plurale è già contenuto nel suffisso (para)cadute.

Il verbo guadagnare è da usare solo nel senso proprio. Lo spiego in questo modo: se guadagnare significa ottenere il pattuito compenso per un lavoro eseguito, che senso ha utilizzarlo per dire giungere a una porta per uscire? Nessuno, e ciò è quasi ridicolo.

Ripugnante è un participio presente del verbo ripugnare, cioè respingere. Solitamente diciamo disdicevole, non disdicente, sgradevole non sgradente, commendevole non commendente, e altro…, per cui non sarebbe male pensare di dire ripugnevole, anche se pare suoni male, in luogo di ripugnante, evitando di utilizzare participi presenti al posto di più opportuni aggettivi.

Il francesismo rimarcare (dal verbo remarquer) potrebbe essere sostituito da verbi come notare, considerare, sottolineare, restando nella tradizione italiana. E ciò non per ripudiare i prestiti e le consonanze linguistiche tra le lingue, specialmente tra lingue apparentate fin dalle loro origini, come sono il Francese e l’Italiano rispetto al Latino, ma per non impoverire l’uso dei lemmi italiani.

Anche il termine alternativa è spesso usato a sproposito, perché questo termine va utilizzato quando si pone una scelta tra due o più opportunità, ad e. scegliere se fare una gita domenicale in montagna o al mare, e quindi quando sussiste una vera alternativa di scelta.

Il più idiota, a mio avviso, di questi utilizzi fuori luogo, è quello dell’avversativa piuttosto che, che significa un’alternativa tra due opzioni, come invece di, mentre a volte è usato come congiunzione in frasi del tipo “sono stato a Ravenna, piuttosto che a Pavia, piuttosto che a Ferrara, etc.“, laddove la gita ha riguardato tutte queste località, non una in alternativa ad altre. Nel caso descritto la congiunzione è semplicemente la “e”.

Tale espressione è nata in ambienti del Nord Italia e poi è stata veicolata nei e dai media di ogni genere. Se non è stupido questo utilizzo…

Il valore di chiarezza e accuratezza nella comunicazione significa rispetto per la lingua italiana e soprattutto per i nostri interlocutori.

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