Villa Ottelio Savorgnan sul fiume Stella ad Ariis di Rivignano

Prima di parlare di Donald Trump, nuovo presidente degli Stati Uniti d’America, desidero proporre un altro argomento, che sembrerà forse un po’ strano e intempestivo ai miei cari lettori, ma a mio avviso non lo è. Eccolo: la ragion per cui Gioan Brera-fu-Carlo, il più grande giornalista sportivo italiano del XX secolo, tra una congerie di firme che annoverava perfino importanti scrittori come Giovanni Arpino e Dino Buzzati – a mio avviso – aveva torto marcio, quando definiva Giovanni detto “Gianni” Rivera e altri calciatori consimili “abatino”, perché poco propensi a correre come mediani, e come, se fosse in vita (più o meno centenario), avrebbe pure oggi torto (ancora marcio) a definire, in base al suo pensiero (penso lo farebbe), dei “non-campioni” calciatori come Mario Balotelli, Antonio Cassano e Rafael Leao, che a volte ciondolavano o tuttora ciondolano per il campo di football, invece di spremersi senza tregua per il campo rincorrendo un pallone o sfuggendo agilmente a un avversario. Caro Brera, nella vita, sul lavoro e ovunque ci sono, sia i “mediani” sia “numeri 10”, e poi i portieri, i centravanti e le ali (non i “braccetti” come ridicolmente le chiama qualcuno da qualche tempo), gli stopper e i liberi, tutti utili, anzi indispensabili, gli uni e gli altri, anzi, gli uni agli altri e soprattutto alla squadra. Caro Brera, le scrivo cordialmente “dall’aldiqua”, perché lei ha lasciato a questo mondo molti suoi imitatori di scarso livello, in tutti i settori dell’informazione, ma soprattutto un sottofondo di fastidiosa arroganza in chi, invece di agire, si dedica solo a raccontare le gesta di chi agisce, giudicandole – a volte – senza avere titoli sufficienti e adeguati per farlo, perché “l’agire del raccontare” si colloca sulla superficie del valore oggettivo della realtà fattuale, eccezion fatta per chi “inventa” (nel senso del verbo latino “invenire”, cioè trovare), una nuova realtà rendendola “fattuale” come nel “mondo fantasy” di un Lodovico Ariosto, di un Hans Christian Andersen o di un John Ronald Reuel Tolkien, come riescono a fare solo i poeti veri (Omero, Publio Virgilio Marone, Dante Alighieri, Francesco Petrarca, Giacomo Leopardi…) e i grandi scrittori (Honoré de Balzac, Alessandro Manzoni, Charles Dickens, Feodor Dostoevskij…), tra i quali annovero assai pochi appartenenti, lato sensu, al suo mestiere, caro Brera. Aliis verbis, il racconto di ciò che altri fanno è meno sostanziale ed efficace dei fatti raccontati… o no? Si può dire che “la cosa” o “il fatto” sono solitamente più importanti della loro mera narrazione? Lei caro Gioan è, a mio avviso, una positiva eccezione, anche se qui la critico un po’ (però dopo averla lodata). Dopo aver parlato di calcio e di come questo meraviglioso sport viene raccontato, propongo un cenno sulla cultura corrente che divide il mondo tra “vincenti” e “perdenti”, che è rivolta soprattutto ai giovani…

Preciso il concetto tecnicamente partendo da Gianni Rivera, che pur non essendo un “attaccante” di ruolo, in senso proprio, ma oggi si direbbe un trequartista, ha segnato circa 200 reti in carriera e ha fornito oltre 500 assist-goal; se ai suoi tempi si fosse giocato il numero di partite di oggi (oltre il 30% in più rispetto agli anni ’60 e ’70) si sarebbero aggiunti alla sua carriera centinaia di altri goal e di assist. Dagli esperti Rivera è considerato uno dei cinque calciatori più forti della storia del calcio italiano, insieme con Giuseppe Meazza,. Valentino Mazzola, Roberto Baggio e Francesco Totti (per tacere di Adolfo Baloncieri, di Silvio Piola, di Giampiero Boniperti, di Paolo Rossi, di Gigi Riva, di Alessandro Del Piero, di Paolo Maldini e di qualche altro).

(Giuseppe “Pepin” Meazza)

Brera considerava “abatini” anche Giacomino Bulgarelli (con il numero 8) del Bologna e Mariolino Corso (con il numero 11) dell’Inter, che sono stati due delle migliori dieci mezzali creative della seconda metà del ‘900, non solo dell’Italia. E qualche volta gli scappava di associare alla trista categoria anche Sandrino Mazzola, figlio del grande Valentino, n. 8, da giovine puntero e in seguito centrocampista, formidabile in ambedue i ruoli

Brera, a mio avviso ha avuto torto sul piano della critica calcistica, perché riteneva che costoro non abbiano fatto ciò che avrebbero potuto e dovuto fare, ma soprattutto dal punto di vista filosofico-esistenziale, e anche morale, di cui parlerò più avanti.

Per Gioan Brera-fu Carlo, Antonio Cassano (ritiratosi un paio di anni fa dopo una carriera non priva di ombre, ma anche di luminosissimi momenti), Mario Balotelli, che è in rientro con il glorioso Genoa, e Rafael Leao, in piena carriera con il Milan e con la Nazionale portoghese, sarebbero, se non “abatini”, visti i fisici possenti di Balotelli e di Leao, ma “ciondolanti” e “non-campioni”

Mi spiego: per Brera, a meno che non si trattasse di Alfredo Di Stefano, di Ferenc Puskas, di Edson Arantes do Nascimiento detto Pelè, di Franz Beckenbauer, di Bobby Charlton o di Johann Cruyff, tutti gli altri avrebbero dovuto correre come mediani alla Johann Neeskens, alla Paul Scholes, alla Berti Vogts o alla Nobby Stiles, alla Giovanni Lodetti, alla Beppe Furino o alla Gianfranco Bedin. Ma non tutti devono fare i “mediani”, anche nella vita, anche sul lavoro, caro Gioan Brera-fu Carlo. Per Diego Armando Maradona fece a tempo a coniare l’ossimorico sintagma “divino scorfano”, Diego, che era stato definito – meritatamente – il pibe de oro. Gli sarebbero piaciuti certamente Marco Van Basten (gli è piaciuto, sì, perché il grande Marcus smetté di giocare per la caviglia maledetta e mal curata, quando Brera perse la vita in un disgraziato incidente stradale) e Cristiano Ronaldo (non ha fatto a tempo a vederlo), perché alti e forti. Da Brera, Messi si sarebbe forse beccato del “nano veloce” (quasi un Achille “piè veloce” di un metro e settanta scarso), vista la sua magnifica verve scrittoria, che era indubitabilmente di ispirazione imaginifico-dannunziana.

Un’altra modalità espressiva che non sopporto, per me assai dannosa, invalsa da qualche decennio, è quella che divide il mondo, tra vincenti e perdenti, in base alla quale i secondi sono solo degli sfigati che meritano la sfiga e la mediocrità, mentre i primi sono gloriosamente tali perché lo meritano. Protestantesimo calvinista americano allo stato puro.

Quando il Barone de Coubertin si è mosso alla fine del XIX secolo per promuovere, assieme a una quindicina di nazioni, le Olimpiadi moderne ad Atene nel 1896, recuperando una tradizione greca classica, vecchia di un paio di millenni e mezzo, coniò la frase “Non è importante vincere, ma partecipare“, poi smentita dallo sviluppo degli eventi del XX secolo, con le sue terribili guerre, mezzo secolo dopo il barone francese, si narra che l’ex campione di calcio Giampiero Boniperti, assurto alla presidenza della sua Juventus, affermò, di contro, che “alla Juventus non è importante vincere, ma è l’unica cosa che conta“, non accorgendosi che la frase possedeva semanticamente una enorme violenza morale. Glielo perdoniamo, perché Boniperti era un valoroso geometra, e quindi un semplice agrimensore, non un eticista o un teoretico.

E’ dunque giusto, corretto e moralmente lecito, partecipare decoubertinianamente o vincere bonipertianamente? Io penso che per vincere occorre (ovviamente) partecipare, ma che l’unica ragione per partecipare non è vincere a tutti i costi, soprattutto al costo di imbrogliare l’avversario (caro lettore, ovviamente non penso questo del pensiero bonipertiano, né questa mia è una excusatio non petita, et hoc clarum sit!). Tuttavia l’aspirazione a vincere, l’ambizione di vincere è, non solo legittima, ma moralmente ed esistenzialmente sana. L’animale umano, secondo la paleoantropologia, è strutturato istintualmente per prevalere, per vincere dunque, fino dai tempi nei quali doveva difendersi da chi lo attaccava e da animali pericolosi. E’ cosa sana, oserei dire anche “buona e giusta”, parafrasando la liturgia cattolica, essere ambiziosi e desiderare vincere.

Nonostante la storia sia andata avanti, pare che la struttura naturale, e quindi mentale dell’uomo, non sia molto cambiata, rimanendo efficiente la parte cosiddetta “rettiiliana”, arcaica, istintuale. Ri-scrivo di nuovo, perché è una mia citazione usuale, che c’è una scuola di pensiero, prevalentemente americana (in primis con lo psicologo e sociologo Steven Pinker) che sostiene come come l’hardware cerebrale (intendo l’intera macchina biologica del cervello e relative connessioni neurologiche) sia in evoluzione, se pure lentissima, verso una maggiore presenza della struttura cognitiva dei lobi orbito frontali, senza che l’amigdala, che è preposta alle emozioni, stia venendo meno nelle sue fondamentali funzioni.

E ora parliamo dei giovani e ai giovani. Quanti danni ha fatto e sta facendo la visione della vita legata alla necessità indefettibile di essere-sempre-vincenti evitando di essere-perdenti, e di esserlo anche mediante la sopraffazione dell’altro.

Questi messaggi “assoluti”, innanzitutto sono di dubbia efficacia, e secondariamente, essendo forti semplificazioni concettuali, rischiano di non cogliere il senso del messaggio e l’obiettivo. Spingere e motivare le persone, soprattutto i giovani, a darsi da fare, a battersi per sé stessi, ad affermarsi dando seguito al sentimento dell’ambizione e delle ricerca di affermarsi anche in quanto individui, è un dato/ fatto positivo sotto il profilo “naturale”, e anche sotto il profilo della costruzione di una società equilibrata, ma non può e non deve essere un’indicazione assoluta legata al mito leaderistico dell’uomo solo al comando, come anche l’elezione di Trump sta attestando, in un certo senso, ma è anche molto altro di cui scriverò presto.

Altrove cercherò di approfondire le tematiche che pone questa rielezione.

Piuttosto, la spinta e la ricerca di essere-vincenti dovrebbe diventare un messaggio di spinta allenante a una lotta interiore psicologica e spirituale, volta al miglioramento di sé stessi, non necessariamente alla vittoria.

Piuttosto che criticare calciatori che non hanno al centro dei loro interessi l’impegnarsi alla morte, ma comunque amano il football di cui sono interpreti talora “poetici”, come Balotelli, Cassano e Leao, suggerirei di osservare (e di criticare) certi politici che, anche troppo ben pagati, ciondolano per Roma, tra il saputello e l’annoiato. Due nomi: l’On.le Bonelli dei Verdi e l’On.le Lupi di Noi moderati.

Post correlati

0 Comments

Leave a Reply

XHTML: You can use these tags: <a href="" title=""> <abbr title=""> <acronym title=""> <b> <blockquote cite=""> <cite> <code> <del datetime=""> <em> <i> <q cite=""> <s> <strike> <strong>