Sabadin cjaliâr (Sabatini, il calzolaio), storis e dits (storie e detti)
Sono “leggende” paesane quelle qui riportate, ma sono aneddoti veritieri, come me le ricorda il mio antico amico, magister e profesôr da Rivignano, Giona Bigotto, autore di una buona parte di questo pezzo, che lui mi autorizza a qui socializzare: sono le storie di Sabadin cjaliâr (Sabatini, il calzolaio), e altro.
Caro Renato,
riporto quanto mi recitava Laura, con impareggiabile grazia e bravura, riportando la protesta del bersagliere Sabadin contro il fruttivendolo di allora.
“Va’ in mon Petrac tì e le to verzett/ che me han fatt sbitià dute le mutand/ e la Catin no me le vol pì lavàr“; trad. it: “va in mona Petracco (era il nome del fruttivendolo) tu e le tue verzette/ che mi hanno fatto “scachicchiare” tutte le mutande/ e la Caterina (sua moglie) non me le vuole più lavare.”
Faccio notare come il verbo friulano al modo infinito sbitià non ha una traduzione plausibilmente efficace, poiché “scachicchiare” è un adattamento assai poco rappresentativo della semantica onomatopeica del verbo, così come risuona in Lingua Friulana, che, peraltro, ha anche altri esempi di sostanziale “intraducibilità”, come i termini corrispondenti a “fiacco”, “stanco”, “essere stremato”, che in Friulano suonano in questo modo: “flàp“, detto strascicando un po’ la vocale “a”, anche se accentata tonicamente, “stràc“, con eguale pronunzia, e “colamènt di vite” (letteralmente caduta della vita per “crollo delle forze”)
Ancora Giona mi racconta della sua amata moglie Laura, mancata pochi anni fa e di ciò che ella stessa amava narrare, con spirito e umorismo naturale.
“Laura mi ha raccontato che, quando frequentava le elementari, un suo tema su un personaggio caratteristico di Rivignano, il vecchio Sabadin appunto, era stato fatto girare tra gli insegnanti dalla sua maestra. Era la maestra Minsulli che avrebbe voluto far proseguire Laura negli studi. Ma erano altri tempi… Peccato.
Laura sopperì magnificamente alla scarsa cultura scolastica con un’intelligenza senza dubbio superiore alla mia e con una varietà di interessi multiformi che corrispondevano alla sua squisita femminilità e forza. Non puoi immaginare quanto mi manca.”
(Un altro aneddoto di Giona) “Ricordo bene che sessanta anni fa, quando io avevo la III^ C delle Medie di Rivignano, e tu frequentavi la prima classe, un tuo tema d’italiano era stato fatto girare, tra l’ammirazione degli insegnanti di allora. Non ti sei smentito e non è stato un fuoco di paglia, come ho potuto constatare nella tua lunga carriera e leggendo il bel lavoro che mi hai mandato ieri su Lutero. Ti auguro ogni bene possibile quaggiù. Mandi” (Giona)
(La mia risposta) “Caro Giona, grazie, se sei d’accordo vorrei pubblicare questo pezzo sul mio blog con le tue considerazioni.
Ti voglio dire che anche mio papà Pietro mi aveva più volte recitato un paio di refrain friulo-abruzzesi di Sabadin, il primo che riguardava suo figlio Ruber (Roberto Sabadin, cioè Sabatini) che aveva ciapà tants crots tai Rundulai/ i’ai manzat dut mi/ e i go fat una panzada cussì; trad. it.: mio figlio Roberto (aveva) preso tante di quelle rane nei Rundulai (loc. agricola)/ le ho mangiate tutte io/ e ho fatto una panciata così; e un altro concernente il fatto di essere stato bersagliere, che devo ricordare al meglio. Forse è questa: eri bersalir cul cjapel plen de pluma/ me l’à prestat Piereto/ c’al vul col torni/ ma iò nol darài mai; trad.it.: ero bersagliere col cappello pieno di piume/ me lo ha prestato Pieretto (che era mio papà)/ che vuole che glielo renda/ ma io non glielo darò mai.
Altre cose di Sabadin me le ricorda Giona: quando c’erano sagre paesane in giro lui andava in bici dove si tenevano, ma tornava ubriaco a tarda sera, e siccome tutti lo sapevano, stavano attenti a quella sagoma che ondeggiava per strada senza mai cadere. L’uomo, abruzzese, bersagliere, durante la Prima Guerra mondiale si era spostato con una ragazza di Rivignano, la su nominata Catin, perché l’aveva messa incinta durante una licenza, ma aveva posuto sposarsi solo per procura, in quanto era comandato sotto le armi nella vittoriosa Battaglia del Solstizio del 1918.
Sabadin aveva chiesto a mio papà il cappello piumato di bersagliere (anche Pietro, come Sabadin nella Prima Guerra mondiale, era stato nel Corpo e aveva combattuto in Jugoslavia e sui monti dell’Epiro nella Seconda Guerra mondiale). Ne ho parlato tempo fa in un altro racconto, quando (io avevo già più di vent’anni), papà Pieri mi narrò di aver dovuto uccidere con la baionetta uno Slavo giovane (papà aveva 26/ 27 anni quando era in guerra), non sapeva dirmi se fosse stato un “Titino” o un “Cetnico”, che lo aveva aggredito nottetempo mentre era di guardia all’accampamento sul Lago di Koniijc in Bosnia. Mio padre era sempre rimasto molto male per questo fatto, addolorato, quasi inconsolabile, visto che lui era addetto al pezzo, una mitragliatrice Breda, con la quale aveva sparato e aveva senz’altro ucciso, ma da distante. Questa era la differenza radicale rispetto a uno scontro all’arma bianca.
“Ancora una cosa, Giona, su Laura. Vero è quello che scrivi ricordandola. Io pure, anche se la ho conosciuta poco, ho sempre avuto la sensazione che fosse una donna, una persona speciale, gentile nell’accoglienza ma altrettanto determinata nel sostenere le sue convinzioni. Posso solo immaginare, ma solo alla lontana, quanto ti manchi.
Comunque, lei è stata nella tua vita, anzi è ancora presente, ed ha contribuito anche a fare di te l’uomo, la persona rara che sei. Ti abbraccio fraternamente, anche se sessanta anni fa ero un tuo studente. Ora sono quasi vecchio anch’io, un po’ matto, qualche volta stupido e sempre, perennemente povero. Ma ho da mangiare, da dormire e qualcosa da dare a chi mi è sempre stato vicino, mentre vedo lo sbocciare professionale di mia figlia Beatrice, mandi mandi.” (Renato)
E qui recupero (di strade, cioè di strada, idiomatismo friulano che vale a dire “assieme a”) anche un altro vecchio amico, un uomo ostico, difficile, buono come il pane, intelligente, grandissimo fotografo, eterno hippy, Andrea di chei di Tunìz di Rivignan, fi da la Elda, ca à zent ains (a è dal ’25, e a finis i ains il 2 di zenâr, mentri me puare mari, la Gigje, mancjade 25 ains fa, a no mi rompeve mai i cojons, e a mi à lassât cressi come co volèvi e a à tant merit, cun mio pari Pieri, di dut ze c’a mi è capitât dopo: trad.it.: …Andrea dei Tonizzo di Rivignano, figlio di Elda, che ha cento anni (è del ’25, e il 2 gennaio compie cento anni, mentre mia povera mamma, la Gigia), mancata venticinque anni fa, non rompeva mai i coglioni, e mi ha lasciato crescere come volevo e ha molto merito, assieme a mio padre Pietro, di tutto quello che mi è capitato in seguito) e di puar Dino, sio pâri, Andrea c’al veve ripuartât chistu dit, original però dal muni Etore D’Alvise, per volé disi di un tâl c’al veve tancju problemas, venastai “mat, vecju, stupit e puar, (e malât) e qualchi volte ancje un pôc rincoionǐt“, dit che qualchi volte a si adàte ancje a mi, orepresint; trad. it.: …e del povero Dino, suo papà, Andrea che aveva riportato questo detto, però originale del sacrestano Ettore D’Alvise, per significare di un tale che aveva tanti problemi personali, cioè “matto, vecchio, stupido e povero (e malato) e qualche volta anche un po’ rincoglionito oggigiorno, detto che qualche volta si adatta anche a me, oggigiorno”.
Amen amen, alias fabulas verbaque, si potero, diebus futuris vobis narrabo…
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