Villa Ottelio Savorgnan sul fiume Stella ad Ariis di Rivignano

Alcune questioni che interpellano il nostro intelletto e la nostra coscienza: 1) la saggezza del papà di Ramy Elgami; 2) l’assoluzione di un omicida; 3) la legittima difesa come principio morale

Il signor Yehia Elgami è un egiziano poco più che sessantenne, che vive in Italia da oltre vent’anni. Gli è accaduta la disgrazia più grande che può capitare a un padre, a un genitore: la morte di un figlio in un incidente stradale generato dalla fuga forsennata su uno scooter, guidato da un amico, da un posto di blocco dei Carabinieri. Il fatto accadeva lo scorso novembre 2024 a Milano. L’inseguimento della “gazzella” è terminato con la caduta dei due ragazzi e con la morte di Ramy. Sono in corso indagini sul comportamento della pattuglia.

La disgrazia è stata il fomite per manifestazioni intitolate a Ramy, ma in realtà sono state essenzialmente aggressioni contro polizia e carabinieri, mentre il signor Yehia, papà del giovane ha rivolto a tutti queste nobili parole:

«Quando ci sono persone che fanno manifestazioni per chiedere giustizia e verità per mio figlio, non devono fare casino né cose brutte. Per favore, fate manifestazioni pacifiche». Parole pronunziate per commentare i modi nei quali si sono svolti alcuni cortei in memoria del figlio, che hanno mostrato, più che un invito deciso e civile a fare chiarezza sui fatti, per irrinunziabili principi morali di giustizia, una rabbia violenta contro la Polizia e i Carabinieri. L’uomo ha poi ribadito la sua fiducia nelle istituzioni citando il presidente Mattarella: «Viviamo sotto il suo ombrello», ha detto.

Queste manifestazioni sono un sintomo di un malessere, di una malagrazia infelice, di un’aggressività inaccettabili di minoranze nullafacenti e di provocatori di professione, che nulla hanno a che vedere con il sacrosanto diritto delle persone di manifestare, anche con inequivocabile fermezza, la propria idea di libertà nella democrazia.

Matteo Cotola, un ragazzo poco più che ventenne ha ucciso alcuni anni fa il padre per difendere la madre e i suoi fratellini, ed è stato assolto, perché l’atto si configura essenzialmente con il diritto morale e costituzionale della legittima difesa di sé stessi e di altri, a partire dai propri cari, contro ogni tipo di aggressione contro ogni aggressore, sia pure un congiunto come il padre. La vicenda durava da alcuni anni, poiché Matteo, in prima istanza era stato assolto, in appello condannato a sei anni di reclusione e infine, nei giorni scorsi, dopo che la Cassazione aveva sentenziato che si tenesse un nuovo processo, nel quale è accaduto quanto sopra, la ripetizione della prima sentenza di non colpevolezza.

Occorre dare uno sguardo alla normativa giuridica della legittima difesa:

Per l’art. 614 del Codice penale, quando sussiste il rapporto di proporzione è sempre legittima la difesa di colui che agisce per respingere l’intrusione posta in essere, con violenza o minaccia di uso di armi o di altri mezzi di coazione fisica, da parte di una o più persone (art. 1 l.n.36/2019).

La legittima difesa è una c.d. scriminante, ossia una condizione particolare in presenza della quale la legge rinuncia a punire una condotta che altrimenti costituirebbe un reato in quanto imposta o consentita.
In questo caso la norma di riferimento è l’art. 52 del Codice penale, il cui primo comma stabilisce che:
Non è punibile chi ha commesso il fatto per esservi stato costretto dalla necessità di difendere un diritto proprio od altrui contro il pericolo attuale di un’offesa ingiusta, sempre che la difesa sia proporzionata all’offesa”.
I presupposti della legittima difesa sono dunque:
a) l’aggressione ingiusta, che deve concretarsi nel pericolo attuale di un’offesa che, se non neutralizzata tempestivamente, può determinare la lesione di un diritto proprio o altrui tutelato dalla legge;
b) la reazione difensiva, che deve essere necessaria, ossia l’unica scelta possibile, e proporzionata, quando il male inflitto dall’aggressore sia inferiore, uguale o tollerabilmente superiore al male minacciato.
La proporzionalità tra difesa ed offesa deve essere accertata e valutata di volta in volta dal Giudice, sulla base di una serie di circostanze oggettive quali, a titolo esemplificativo: l’esistenza di un pericolo attuale o di un’offesa ingiusta, la reazione dell’aggredito ed il contemperamento tra l’importanza del bene inacciato e di quello leso.
La legittima difesa domiciliare è un particolare tipo di difesa, caratterizzata dalla maggiore pericolosità causata dalla violazione di domicilio. Tale circostanza legittima chi si trova in casa a difendersi senza dover rispettare tutti i requisiti previsti per la difesa “tradizionale”.
L’istituto è disciplinato dai commi due e tre dell’art. 52 del Codice penale, introdotti dalla l.n. 59/2006.
Caratteristiche:
a) la violazione del domicilio privato o di un luogo ad esso equiparato, quale il locale dove viene esercitata un’attività commerciale professionale o imprenditoriale (art. 614 Codice penale);
b) presuppone la sussistenza della proporzione tra difesa e offesa;
c) è legittima se si utilizza un’arma legittimamente detenuta o altro mezzo idoneo al fine di difendersi, purché vi sia il
pericolo per la propria incolumità oppure per i beni propri o altrui, quando non vi è desistenza e vi è concreto pericolo d’aggressione (ad esempio: il ladro, nonostante sia stato scoperto e gli venga intimato di allontanarsi, si avvicina con fare minaccioso, magari brandendo un’arma).
La norma è stata ulteriormente modificata dell’intervento legislativo del marzo 2019.
Ad esempio, se una persona viene aggredita per strada e, per difendersi, spintona l’aggressore facendolo rovinare per le terre non fa altro che legittimamante difendersi.

La legge n. 36 del 2019 di riforma della legittima difesa domiciliare ha modificato norma del Codice penale, del Codice civile e del Testo Unico delle spese di giustizia.
Le novità della riforma:
Difesa domiciliare è sempre legittima (art. 52 Codice penale).
Nei casi di violazione di domicilio previsti dall’art. 614 Codice penale, sussiste il rapporto di proporzione ed è sempre legittima la difesa di colui che agisce per respingere l’intrusione posta in essere, con violenza o minaccia di uso di armi o di altri mezzi di coazione fisica, da parte di una o più persone (art. 1
l.n.36/2019).
La norma non ha modificato i requisiti per la presunzione di proporzionalità, ossia la difesa dell’incolumità, propria o altrui e la tutela dei beni, sempre che non vi sia desistenza.
È ancora reato sparare alle spalle a colui che si sta dando alla fuga o utilizzare armi quando non vi sia nessun pericolo per la propria incolumità.

Eccesso colposo di legittima difesa, (art. 55 Codice penale)
L’eccesso colposo punisce la condotta di chi, pur difendendosi, supera i limiti del consentito.
La novella ha ampliato il concetto di offesa escludendo la punibilità di chi ha commesso il fatto, e per la salvaguardia della propria o altrui incolumità ha agito trovandosi in condizione di particolare vulnerabilità ovvero in stato di grave turbamento derivante dalla situazione di pericolo in atto (art. 2 l.n.36/2019).
A titolo esemplificativo, se Tizio spara in aria con l’intento di spaventare il ladro, ma, a causa dell’agitazione del momento, lo ferisce alla spalla, prima della Riforma avrebbe risposto del reato di lesioni colpose mentre ora non sarà punibile.
La sussistenza del grave turbamento dovrà essere accertata e valutata caso per caso dal Giudice.

I teologi cattolici, in modo particolare San Tommaso d’Aquino, giustificano la difesa nel caso dell’ingiusta aggressione con la luce che deriva dal cosiddetto volontario indiretto.
Il che significa che uno vuole solo il bene e pertanto sia il fine che i mezzi sono buoni.
Tuttavia, stante e perdurante l’aggressione dell’altro, va a finire che la spada o il giavellotto dell’altro, andando a cozzare contro la mia corazza o la mia spada, rimbalza sull’aggressore, lo ferisce e lo uccide. Questo era l’esempio portato dagli antichi.
Allora l’azione compiuta da chi si difende non è un’azione omicida, ma di difesa di se stessi o della propria famiglia.
Pertanto si tratta di un’azione buona, che purtroppo indipendentemente dalla propria volontà ha un effetto cattivo, l’uccisione dell’altro.

Oggi invece, quando si parla di legittima difesa, si pensa subito all’uso della pistola.
Allora qui bisogna dire: se lo sparo è per aria o per terra o sulle gomme delle auto o moto che i ladri stanno usando per portarsi via la refurtiva non c’è nulla da dire.
Ma se si mira direttamente al corpo dell’altro, qui non c’è più legittima difesa. C’è l’uccisione dell’aggressore, che può essere capìta e scusata finché si vuole, ma rimane sempre un’azione che nel suo fine e nei suoi mezzi mira all’uccisione. Si tratta pertanto di un omicidio.
E questo non è lecito, a meno che l’unica strada per impedire all’altro di continuare a sparare sia quella di fermare la causa efficiente dello sparo.
E questo è quanto fanno i soldati o le guardie quando sono chiamati a difendere dall’ingiusto aggressore.
Ma va subito detto che essi non vogliono uccidere, cosa che se dipendesse da loro non farebbero mai.
Ricorrono ad estremi rimedi per fermare estremi mali incalzanti. Colpiscono gli aggressori che sparano nel medesimo modo in cui un antimissile cerca di respingere il missile assalitore. Qui non c’è altra soluzione, che rimane giustificata sempre alla luce del volontario indiretto: si scende in campo per difendersi dall’aggressore (atto volontario diretto) e non per uccidere (atto volontario indiretto).

Ecco il testo di san Tommaso:
Nulla impedisce che un atto abbia due effetti, di cui uno è intenzionale e l’altro involontario. Gli atti morali però ricevono la specie da ciò che è intenzionale, non da ciò che è involontario, essendo questo un elemento accidentale.
Perciò dall’azione della difesa personale possono seguire due effetti, il primo dei quali è la conservazione della propria vita, mentre l’altro è l’uccisione dell’attentatore. Ora, questa azione non può essere considerata illecita per il fatto che con essa si intende conservare la propria vita: poiché è naturale ad ogni essere conservare per quanto è possibile la propria esistenza.
Tuttavia un atto che parte da una buona intenzione può diventare illecito se è sproporzionato al fine. Quindi se uno nel difendere la propria vita usa maggiore violenza del necessario, il suo atto è illecito. Se invece reagisce con moderazione, allora la difesa è lecita: infatti il diritto stabilisce che «è lecito respingere la violenza con la violenza nei limiti di una difesa incolpevole
».
Quindi non è necessario per la salvezza dell’anima che uno rinunzi alla legittima difesa per evitare l’uccisione di altri: poiché un uomo è tenuto a provvedere più alla propria vita che alla vita altrui.
Siccome però spetta alla pubblica autorità uccidere un uomo per il bene comune, è illecito che un uomo intenda [espressamente] uccidere un uomo per difendere se stesso, a meno che non abbia un incarico pubblico che a ciò lo autorizzi per il pubblico bene: come è evidente per il soldato che combatte contro i nemici e per le guardie che affrontano i malviventi. Anche questi però peccano se sono mossi da risentimenti personali” (Somma teologica, II-II, 64, 7). Va ricordato che ai tempi di san Tommaso veniva data per scontata la legittimità della pena di morte, se questa era comandata dall’autorità.

Riporto anche quanto scrive il Catechismo della Chiesa Cattolica, che su questo punto si rifà esplicitamente al pensiero di San Tommaso:

“La legittima difesa delle persone e delle società non costituisce un’eccezione alla proibizione di uccidere l’innocente, uccisione in cui consiste l’omicidio volontario. «Dalla difesa personale possono seguire due effetti, il primo dei quali è la conservazione della propria vita; mentre l’altro è l’uccisione dell’attentatore… Il primo soltanto è intenzionale, l’altro è involontario» (San Tommaso d’Aquino, Summa theologiae, II-II, 64, 7)” (n. 2263).
“L’amore verso se stessi resta un principio fondamentale della moralità. E’ quindi legittimo far rispettare il proprio diritto alla vita. Chi difende la propria vita non si rende colpevole di omicidio anche se è costretto a infliggere al suo aggressore un colpo mortale: «Se uno nel difendere la propria vita usa maggior violenza del necessario, il suo atto è illecito. Se invece reagisce con moderazione, allora la difesa è lecita… E non è necessario per la salvezza dell’anima che uno rinunzi alla legittima difesa per evitare l’uccisione di altri: poiché un uomo è tenuto di più a provvedere alla propria vita che alla vita altrui» (San Tommaso d’Aquino, Summa theologiae, II-II, 64, 7)” (n. 2264).
“La legittima difesa, oltre che un diritto, può essere anche un grave dovere, per chi è responsabile della vita di altri. La difesa del bene comune esige che si ponga l’ingiusto aggressore in stato di non nuocere. A questo titolo, i legittimi detentori dell’autorità hanno il diritto di usare anche le armi per respingere gli aggressori della comunità civile affidata alla loro responsabilità” (n. 2265).

Secondo la dottrina tradizionale, la legittima difesa, assieme alla pena di morte e all’uccisione in guerra, si configura come un’eccezione al divieto di uccidere. Sul piano teoretico, il problema della legittimità della difesa consiste nel riconoscere all’aggredito il diritto di uccidere l’aggressore, di riconoscere a un soggetto un diritto sulla vita altrui. Tommaso d’Aquino preferiva giustificare la legittima difesa in base al principio del duplice effetto, piuttosto che in base a quello della disponibilità (o meno) della vita dell’ingiusto aggressore. Resta indubbio, tuttavia, che l’aggredito che decide di difendersi vuole uccidere, o quanto meno accetta psicologicamente la possibilità che sia proprio questo l’esito della sua azione di difesa. Il tentativo di giustificare la legittima difesa in base al principio del duplice effetto finisce, infatti, per trascendere il piano dell’etica individuale, ponendosi su quello dell’etica sociale, attraverso il riferimento alla difesa del bene comune. È pur vero che la legittima difesa soddisfa un primordiale senso di giustizia, nell’ambito del quale ‘colpevole’ è l’ingiusto e violento aggressore, che pone in pericolo diritti essenziali dell’aggredito, senza lasciargli possibilità di difenderli se non attraverso una reazione caratterizzata da una violenza analoga a quella dell’aggressore. Emerge, in tal senso, la necessità di far riferimento all’oggettività e non alla soggettività delle categorie di colpa e innocenza: colpevole, per il diritto, non è colui che lo è soggettivamente, ma solo materialmente; innocente è non solo chi lo sia soggettivamente, ma materialmente, per il solo fatto di essere stato aggredito. Sotto il profilo etico, l’impulso alla propria o all’altrui difesa può essere motivato dal senso di dovere, che incombe su ogni uomo, di evitare che si compia il male. Il difensore non ha alcun diritto, infatti, sulla vita dell’aggressore, ma ha il dovere di reagire per impedire che l’ingiustizia si realizzi. Perciò, chi si difende non commette propriamente un omicidio, perché la sua azione non è rivolta ad accrescere l’odio nel mondo, ma a minimizzarlo. In tal senso, nella legittima difesa ciò che emerge non è paradossalmente il bene da difendere, ma il principio per cui lo si difende: e cioè che il male non deve mai vincere.

L’art. 51 c.p. riguarda il caso in cui un superiore ordina a un sottoposto di usare un’arma e l’agente, nell’eseguire il comando ricevuto, adempie a un proprio dovere.
Se il comando è legittimo l’azione sarà naturalmente permessa dalla legge.

Se però l’ordine non è legittimo e il sottoposto se ne rende conto, ha il dovere di rifiutarsi di eseguirlo, perché altrimenti sarà penalmente responsabile tanto quanto il superiore che gli ha imposto l’uso dell’arma.

Per finire: nell’ipotesi in cui un automobilista distratto abbia superato a velocità consentita il posto di blocco che gli segnalava di fermarsi e uno dei due poliziotti abbia quindi ordinato all’altro di aprire il fuoco, quest’ordine risulterà evidentemente illegittimo e sproporzionato e non bisognerà dargli seguito.

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