Villa Ottelio Savorgnan sul fiume Stella ad Ariis di Rivignano

Homo loquens. L’origine, lo sviluppo del linguaggio e la sua importanza capitale nel diventare umani

WittgensteinAnticipo qui il secondo capitolo del volume in pubblicazione, già annunziato nel brano precedente… anche questo per aiutare la riflessione sulla comunicazione e il linguaggio, oggi ampiamente in crisi.

Solitamente, con il termine “linguaggio” si intende prima di tutto un codice composto da parole, che sono suoni emessi dall’apparato fisiologico della fonazione umana e dalla bocca, ma anche da gesti, atteggiamenti corporei ed espressioni del volto. La moderna psicologia della comunicazione distingue fra “linguaggio verbale”, cioè tutto il plesso espressivo compreso nel discorso logico formulato in una determinata lingua, linguaggio paravaerbale, e “”linguaggio non verbale”, o del corpo, vale a dire tutto ciò che l’uomo fa per accompagnare, consciamente o inconsciamente la parola che formula o… tace.[1] Gli studiosi della comunicazione sostengono che dei due o tre componenti, è il linguaggio non verbale ad avere la prevalenza in termini di efficacia,[2] specialmente nei casi di contraddizione fra ciò che un parlante dice, perché magari vi è costretto, e ciò che realmente pensa.[3]

La questione del linguaggio è stata ed è oggetto dello studio di diverse scienze umane, tra le quali la filosofia. Nella contemporaneità vi è stato anche chi ha posto il linguaggio, ad esempio l’austriaco Wittgenstein,[4] come l’unico “oggetto” veramente meritevole di indagine filosofica. Altri, come il Croce[5] ne hanno affermato l’origine e la strutturazione essenzialmente artistico-poetica, ma non trovarono solo adepti. Vi furono alcuni, e non poco numerosi o autorevoli, come J.G. Herder, che affermarono l’importanza del linguaggio e la sua specificità anche nelle altre discipline, come quelle scientifica, storiografica, filosofica, oratoria, della conoscenza comune e dell’azione pratica.

Si può dire che il linguaggio, così come è strutturato in varie lingue e innumerevoli atti linguistici,[6] è uno strumento peculiare dell’umano, massimamente espressivo dell’intelligenza dell’uomo. In particolare, le lingue vengono dopo, seguendo gli atti linguistici, che le fanno precipuamente sorgere e svilupparsi. Quindi, il linguaggio non è solamente “mitopoietico” [Vico[7]], ma necessitato dalla volontà di ciascun individuo di comunicare con gli altri. Nelle Lezioni Ginevrine, il de Saussure distinse fra la langue, o lingua come strumento, e parole, vale a dire atto linguistico. Per de Saussure le parole non sono simboli che corrispondono agli oggetti cui sono state attribuite, ma segni costituiti da due parti: il significante, che è la parte concreta, tangibile del segno [suoni, immagini, disegni, gesti, colori semaforici, etc.], e il significato, che è il concetto racchiuso nel segno [ad es.: avanzare a fronte di semaforo verde].[8] Un altro autore, l’americano C.S. Peirce, ha individuato tre tipi di segno: iconico, che ha una referenza diretta con l’oggetto rappresentato, come il disegno di una casa; indessicale, che ha una referenza indiretta con la rappresentazione, come le nuovole rinviano alla pioggia; simbolico, che non ha nulla a che fare con il referente, e richiede quindi l’avvio di un procedimento interpretativo. Autori come Roland Barthes, Propp, Lévi-Strauss e Genette hanno poi ampliato la riflessione sulla linguistica, proponendo l’indagine strutturalista, con la quale si procede considerando il testo come un sistema complesso di sottostrutture come i morfemi, i lessemi, i fonemi, etc., e di lessico e sintassi. Jakobson, infine, distingue, un po’ sulle tracce di Saussure, fra due “assi” linguistici: quello sintagmatico, il quale allinea gli elementi linguistici; quello paradigmatico, il quale costituisce il contenitore dal quale si attingono i sintagmi. Anche N. Chomsky parla della lingua che si forma come instrument,[9] così come G. Frege[10]. Si può affermare, a questo punto, non stranamente in consonanza con gli autori della gnoseologia classica aristotelico-tommasiana, che si deve distinguere fra: a) le operazioni della mente, i concetti, b) la disponibilità dello strumento linguistico che consente la tra-duzione dei concetti nei termini significanti, c) il suo uso concreto nell’atto linguistico.

È utile, quindi, porsi brevemente la questione dell’origine del linguaggio.[11] L’uomo delle origini, insieme con i suoi simili, costruisce la lingua a poco a poco, in forma povera e rudimentale. La stessa comunicazione con gli altri esige di sviluppare il procedimento astrattivo, che passa dai percetti, come enti appena formati in quanto corrispondenza rappresentativa delle cose pensate nella mente, ai concetti, e alla rappresentazione di questi attraverso il segno, che è stato, prima ideografico, e successivamente sintetico-letterale. La lingua, prima ancora di essere scritta, vive dell’atto linguistico e fa vivere l’atto stesso, ma vive di più, sempre di più, mentre lo pratica. La lingua non può essere a-concettuale, se non nei segni che sono suoni dei sentimenti come: oh, ah, o di dolore, paura, etc., intesa come pura intuizione-espressione. Il concetto, sia pure intriso di simbolismi e metafore, come vedremo nel clou di questa trattazione, la permea continuamente, la avvolge, la intride di elementi radicali e di sfumature, nell’insieme dei testi e dei con-testi. In questo locus nasce l’esigenza ermeneutica, che introduce la nozione dello scarto infinito tra lo scritto e l’interpretabile.

Come ha avuto inizio lo strumento linguistico? Oggi se ne occupano discipline scientifiche varie, dall’archeologia, alle neuroscienze alla filosofia del linguaggio, etc.. Ad esempio, il Calogero distingue fra arte e linguaggio, fra memoria e linguaggio, fra concetto e realtà, anche lui un po’ debitore della gnoseologia classica.[12] Sull’origine del linguaggio il Calogero afferma:

“[…] E già troppo fecero i poveri bestioni primitivi, quando trasformarono il loro presumibile originario linguaggio di meri segni espressivi delle più elementari passioni – fame, ira, terrore, brama, analogo a quello che oggi possiamo sentir ancora vivo negli animali, in un più ricco linguaggio, capace altresì di designare oggetti e rappresentazioni, perché si pretenda da loro che fossero stati anche poeti!”[13]

 

Un altro autore contemporaneo, A. Pagliaro, sostiene che la lingua è soprattutto un fatto teoretico, un sistema di segni, di significati grammaticali e lessicali, e che ha una componente preminente di carattere semantico e gnoseologico.[14] Egli scrive:

“[…] l’intuizione linguistica è diversa dalle altre, artistica, logica, pratica, etc), è quella che coglie un rapporto, anzi una serie di rapporti fra il contenuto della conoscenza, qualunque esso sia, e un insieme di segni significante, cioè un conoscere distinto. È un conoscere linguistico.”[15]

 

Abbiamo già visto che non tutto il linguaggio è pensiero discorsivo, come accade nel caso delle esclamazioni derivanti o provocate dai cosiddetti moti primi-primi,[16] o impulsi primari. Un altro aspetto da sottolineare conferma come non tutte le esperienze, moti o impulsi coscienziali vengano necessariamente “verbalizzati”. Consideriamo la sensazione di un forte dolore fisico, o all’intuizione profonda e improvvisa di un concetto che si staglia nella mente con eccezionale chiarezza, o ancora agli atti che producono procedure pratiche: ebbene, in questi casi l’analisi mentale e il processo fonatorio-linguistico possono non avere luogo. Solo il pensiero logico, in definitiva, non può fare a meno del linguaggio. Ma bisogna mantenere la distinzione fra gli ambiti “mentale” e “verbale”, vagliando come dimensioni diverse il “momento del pensiero” e il “momento del linguaggio”.

Lo stesso Pagliaro afferma:

La frase mentale è l’atto mediante cui si costituisce nella mente la frase, in un momento, per così dire preverbale, costituito di valori astratti, approssimativamente còlti”.[17]

 

La frase verbale collega strutture astratte [i percetti e i concetti] con fonemi e successivamente con simboli grafici. Il linguaggio originario pone come problema collegato, l’origine stessa del simbolo. Il linguaggio stesso nasce da simbologie, come sappiamo, in una prima fase ideografiche [cf. geroglifici egizi e cinese antico], e solo successivamente “simboliche”, nel senso di una rappresentazione di suoni significanti mediante segni.

Se si trattasse, come ammettono anche von Humboldt[18] e Cassirer,[19] di un’origine espressa per frasi, e non per lemmi e fonemi elementari, si dovrebbe ammettere che la lingua precede in qualche modo l’oggetto o il concetto rappresentato, quasi per una mimesi di tipo platonico. In realtà, ci si potrebbe accontentare, per definire l’”originario”, di una sorta di

“[…] minimo di varietà funzionale nella serie acustica, che è già indispensabile, affinché possa parlarsi di segno e non di segnale.”[20]

 

Diversamente, la caratteristica del segnale dell’animale è costituito dalla sua “inanalizzabilità” [Lorenz permettendo].[21] In conclusione, e in coerenza con quanto si concorda a livello di scienze ermeneutiche, si può dire con sufficiente tranquillità che il linguaggio non può che essere stato iniziato da un singolo segno, da singoli segni, magari enunziati in funzione di frase, per l’accezione che noi contemporanei occidentali diamo al significato di “frase”.

Non possiamo non citare su questo anche il tedesco Herder, il quale su questi temi va ricordato per la sua profonda indagine sul linguaggio, che per lui è caratteristica precipuamente umana, in quanto l’uomo è aristotelicamente animal rationale.[22] Nell’uomo il linguaggio è un qualcosa che risuona nel sentire, nel sentimento, ancora prima che sia possibile descriverlo,[23] come prodotto di suoni selvaggi provenienti da organi liberi.[24]

In proposito scrive Herder:

I bambini esprimono i loro sentimenti emettendo suoni come gli animali; ma la lingua che imparano dagli adulti non è una lingua completamente diversa?”[25]

 

Interviene, dunque, la ragione, che governa l’istintualità, a partire dalla singola lallazione o segno primordiale, che può essere l’onomatopea, il verso, il suono, come simbolo evocativo interiore [Merkwort]. Anche il belato di una pecora, anche l’mm dell’infante,[26] che in un indefinibile lasso di tempo è diventato l’etimo di “μήτερ – mater – mamma – mother – mutter, etc.”

Ancora Herder:

“[…] senza linguaggio l’uomo non ha capacità di ragionare, e senza ragione non ha linguaggio”.[27] E “Il primo contrassegno che io percepisco è una Parola mnemonica per me, una Parola comunicativa per gli altri.”[28]

 

Si può forse dire che ciò che non deriva da onomatopea o altro suono primordiale, è stato “inventato” e “convenzionato” dall’uomo, stabilendo un rapporto fra significante e significato? Si può pensare che esista una specie di nunc aeternum dentro la cronologia dello sviluppo di tutti i linguaggi umani? Non ci è data una risposta completamente soddisfacente sul piano scientifico, ma solamente delle ipotesi, perché vi è un collegamento diretto e necessario fra questo argomento e lo sviluppo della ragione umana.[29] In Bruni, studioso contemporaneo, troviamo conferme alle teorie classiche di Herder e von Humboldt, evoluzioniste, ma senza la pretesa e l’arroganza di spiegare la ragione originaria, il perché fondativo, della nascita del linguaggio, ovvero di non riconoscerne la causalità finalistica e dunque la fondamentale comprensibilità[30]:

“[…] la tesi dell’origine naturale del linguaggio, mediante l’onomatopea è l’unica scientificamente sostenibile. […] I glottologi e gli psicologi, che ritengono il linguaggio di origine naturale hanno sempre pensato che l’onomatopea sia stata la madre più feconda delle parole. Il Renan affermò che nelle lingue semitiche, e specialmente nell’ebraico, la formazione dalla onomatopea è sensibilissima per un grande numero di radici, e soprattutto per quelle che hanno un carattere spiccato di antichità e di monosillabismo.”[31]

 

Concorda essenzialmente con Herder, Renan e Bruni, il Merlo, il quale scrive che:

“[…] le prime parole create dall’uomo furono certo onomatopeiche, imitative dei suoni risonanti al nostro orecchio; onomatopeiche sono le parole che il bimbo crea e che poi presto dimentica per le [parole, ndr] ereditarie. Il lessico indo-europeo ribocca di parole onomatopeiche; molte ne conosce di sue proprie il lessico della lingua latina; e perché alle ereditarie non sarebbero venute ad aggiungersene altre, e molte altre, in età latina tarda, e nelle singole lingue romanze [  slave e germaniche, ndr]?”[32]

 

Un altro autore contemporaneo, il teologo B. Mondin,[33] considera il linguaggio come una caratteristica decisiva della struttura antropologica. Egli traccia una storia dell’antropologia filosofica, distinguendo tre fasi: la prima, quella della classicità greco-latina ha sottolineato un interesse precipuo del pensiero umano per la questione dell’essere; la seconda, a partire da Francis Bacon e da Descartes, ha posto al centro la questione della conoscenza, e si è caratterizzata come una gnoseologia; la terza, riguardante direttamente noi contemporanei, ha inteso mettere in evidenza la questione ermeneutica, cioè la valenza dell’interpretazione da applicarsi in ogni ricerca e in ogni sapere scientifico. In questo ambito emergono degli autori che tratteremo più avanti,[34] ma soprattutto l’esigenza di porsi il problema di una filosofia del linguaggio, e di una sua evoluzione storica.

Il linguaggio è una funzione naturale dell’uomo che rappresenta la sua propria capacità di discernimento, di classificazione e di manifestazione dei propri sentimenti e concetti. Fin dall’antichità, può rappresentare, sia letteralmente ciò che la convenzione segnica ha designato che abbia un determinato significato, sia simbolicamente o allegoricamente un qualcosa che rinvia ad altro.[35] In proposito si considerano e si danno molte specie di segni: a) la distinzione fra segni naturali come il fumo e le nuvole come segni della pioggia e del fuoco, e segni artificiali come la colomba, simbolo della pace; b) la distinzione fra simboli non linguistici come i gesti espressivi, i semafori, etc., e i simboli linguistici, cioè i segni delle parole parlate e scritte; c) la distinzione tra segni iconici, cioè simili a ciò che denotano come un quadro, un suono onomatopeico, i geroglifici, e segni convenzionali, come l’alfabeto Morse, o le parole e i segni matematici e logici in generale. Si tratta dunque di un sistema di segni artificiali e convenzionali adatto alla comunicazione. Il linguaggio è lo strumento ideale della intenzionalità essenziale dell’uomo. La possibilità di rappresentazione simbolica, peraltro, è quella che più ci interessa in questo lavoro.[36]

Huxley si chiede:

Che cosa è che fa l’uomo ciò che è? Il linguaggio. Infatti che cos’è se non il potere del linguaggio che gli dà la capacità di registrare la sua esperienza, e rende in tal modo ogni generazione più saggia di quella che l’ha preceduta e più in sintonia con l’ordine stabilito dell’universo?[37] Che cosa è se non questo potere del linguaggio, di registrare la propria esperienza, che mette l’uomo in condizione di essere uomo, consentendogli di guardare avanti e indietro e di afferrare, in un senso oscuro, il meccanismo di questo meraviglioso universo? Che cosa è se non il linguaggio che distingue l’uomo dall’intero mondo dei bruti?”[38]

 

Cassirer, grande studioso delle forme simboliche, ha scritto sul tema con grande chiarezza:

Il linguaggio è uno dei mezzi fondamentali dello spirito, grazie al quale si compie il nostro passaggio dal mondo della sensazione al mondo della visione e della rappresentazione. Esso comprende già in germe quel lavoro intellettuale, che in seguito si esprimerà nella formazione del concetto in quanto concetto scientifico e come unità logica della forma. Qui si registra il primo inizio di quella funzione generale del dividere e del comporre, la quale troverà la più alta espressione nell’analisi e nella sintesi del pensiero scientifico.”[39]

 

Heidegger scrive:

Secondo una tradizione antica, noi, proprio noi, siamo gli esseri che sono in grado di parlare e che perciò già possiedono il linguaggio.[…] Né la facoltà del parlare è nell’uomo solo una capacità che si ponga accanto alle altre, sullo stesso piano delle altre. Questo tratto è il profilo del suo stesso essere. L’uomo non sarebbe uomo, se non gli fosse concesso di parlare, di dire è, ininterrottamente, per ogni motivo, in riferimento ad ogni cosa, in forme varie, il più delle volte tacendo. In quanto il linguaggio concede questo, l’essere dell’uomo poggia sul linguaggio. Già dall’inizio noi siamo dunque nel linguaggio e con il linguaggio.”[40]

 

Ludwig Wittgenstein preferisce invece la tesi di una convenzionalità originaria e storicamente evolutasi, per quanto concerne la formazione dei segni linguistici, poiché l’assegnazione di significati ai segni-parole è e resta arbitrario, come arbitrarie sono le regole dei giochi. Il linguaggio stesso, per Wittgenstein è paragonabile a un gioco [Sprachspiel], o a una qualsiasi convenzione relazionale od operativa. Interessante l’esempio lavorativo che egli propone:

Supponi che un arnese adoperato da un muratore per costruire porti un certo segno, un’etichetta. Quando il muratore mostra al manovale il segno [l’etichetta], il manovale gli porta l’arnese che ha quel segno. È press’a poco in questo modo che un nome significa e viene assegnato ad una cosa. Si rivelerà assai utile in filosofia ripetersi di tanto in tanto che denominare è un’operazione simile all’affibbiare un’etichetta a una cosa.”[41]

 

Si possono plausibilmente accettare, come integrabili, tutte e due queste linee di pensiero, poiché è indubbio e sperimentabile il ruolo dell’onomatopea, così come l’arbitrarietà della definizione delle convenzioni segniche.[42] Un altro importante autore europeo, M. Polanyi, sottolinea come sia essenzialmente il linguaggio a dare il “salto qualitativo” all’uomo rispetto agli animali superiori:

L’enorme superiorità dell’uomo rispetto agli animali è dovuta paradossalmente ad un vantaggio quasi impercepibile al momento iniziale nelle sue facoltà inarticolate. La situazione può essere riassunta nei tre punti seguenti: la superiorità intellettiva dell’uomo è dovuta quasi esclusivamente all’uso del linguaggio. Però il dono della Parola non può essere dovuto all’uso del linguaggio e deve essere pertanto dovuto a doni pre-linguistici. Tuttavia se si lasciano fuori gli elementi linguistici gli uomini si trovano minimamente avvantaggiati nel risolvere quelle specie di problemi che noi sottoponiamo agli animali. Da ciò risulta che le facoltà inarticolate, le potenze, con cui l’uomo supera gli animali e che, producendo il linguaggio, spiegano la superiorità intellettiva dell’uomo, in se stesse sono quasi impercettibili.”[43]

 

Altri autori, come gli americani Shannon e Weaver, studiosi di cibernetica e delle analogie riscontrabili tra il linguaggio umano e il cosiddetto “linguaggio-macchina”, sottolineano, a loro volta, l’esistenza di polisemie e ambiguità, poiché il linguaggio verbale, parlato e scritto, non corrisponde mai al linguaggio formale codificato, che prevede e prescrive corrispondenze biunivoche fra significato e significante.

Jakobson sostiene che

“[…] gli uomini non comunicano solamente una certa quantità di informazioni, ma scambiano significati”,[44] che derivano da simboli ed inducono ad associazioni di senso. In altri termini, la comunicazione risulta facilitata

se locutore ed allocutario condividono lo stesso universo simbolico e gli stessi quadri di riferimento, che […] costituiscono veri e propri “filtri”, rispetto al flusso comunicazionale.” [45]

 

Marc e Picard ritengono essere il linguaggio non come mero mezzo di trasferimento di informazioni da una mente ad un’altra, bensì come una

dimensione essenziale della cultura in cui si iscrivono la maggior parte dei valori e delle rappresentazioni sociali su cui si fondano gli scambi sociali e le pratiche collettive.”[46]

 

Bachtin scrive che

la Parola è un atto a due facce […], è il prodotto della relazione reciproca tra il parlante e l’ascoltatore, tra il mittente e il destinatario.”[47]

 

È interessante notare, come anche la teoresi linguistica contemporanea sia orientata ad ampliare le dimensioni che vanno attribuite alla funzione linguistica. Non solo le si riconoscono quelle tradizionali: la descrittiva-conoscitiva, o denotativa, o rappresentativa o simbolica, e inoltre quella emotiva, performativa, esistenziale-personale, ma anche quella comunicativa-intersoggettiva. Quest’ultimo aspetto mette in collegamento studiosi di varie discipline, realizzando quasi una rete tra le scienze umane. Psicologi del lavoro e delle organizzazioni, sociologi della comunicazione, filosofi teoretici ed ermeneutici, teologi sistematici, trovano un comune terreno sul quale lavorare insieme. Sempre se… con umiltà.

Il linguaggio può essere considerato, dunque, come un qualcosa che dialoga costantemente con il pensiero, al quale non è subordinato, nel senso comune del termine, ma con il quale dialoga con valore performativo. Non conta dunque solo la descrivibilità di un oggetto, o quello che oggi si dice feedback in un’interlocuzione, ma contano gli interlocutori, il parlante e chi lo ascolta, lo scrivente e il lettore. Conta l’ambito, il contesto nel quale avviene l’atto comunicativo, la sua ricezione e il nuovo atto comunicativo. Non si può dire, con gli strutturalisti ortodossi, che il linguaggio “è tutto”, o con gli esistenzialisti dell’io-tu,[48] che “tutto è relazione”, ma indubbiamente il linguaggio è una delle chiavi di accesso all’essere, e all’esser-ci [Heidegger].

Il parlare inteso nella sua pienezza significante trascende sempre la dimensione puramente fisico-sensibile del suono. Il linguaggio, come significato fattosi suono e segno scritto, è qualcosa di essenzialmente sopra-sensibile, qualcosa che perennemente oltrepassa il puramente sensibile. Il linguaggio, così inteso, è, per sua costitutiva natura, metafisico.”[49]

 

Le lingue naturali presentano dei problemi, sia come codici, sia come strumenti “ostensivo-inferenziali”, poiché le ambiguità, le polisemie e le iperemie spesso condizionano anche i significati accepiti come primari o prevalenti, o più diffusi. Polifonie ininterrotte, più che monodie, come cercheremo di esplorare negli autori cui la ricerca si riferisce specialmente: Origene prima, e successivamente Paul Ricœur.

Eugenio Montale, uno dei maggiori poeti del ‘900 europeo, in una sua lirica[50] della maturità canta così:

“[…] Ma è poi/ l’arte della Parola detta o scritta/ accessibile a chi non ha voce e Parola?/ È tutta qui la mia povera idea/ del linguaggio, questo dio dimidiato/ che non porta a salvezza perché non sa/ nulla di noi e ovviamente/ nulla di sé.”

 

Anche la poesia dice della misteriosità intrinseca del linguaggio, “dio dimidiato”, scrive il poeta ligure, in una quasi invettiva che reclama l’esigenza profonda di capire, di comprendere ciò che siamo, ciò che l’uomo è, perché è e perché non é.

Un altro punto di vista contemporaneo non trascurabile per la prospettiva ermeneutica, anche se parziale, può essere quello della ricerca di Noam Chomsky,[51] il quale ritiene che ogni frase, prima di essere formulata, sia concepita come struttura profonda della nostra psiche. Ciò significa che, se a livello di struttura psicologica fondamentale in tutte le lingue naturali la frase ha la medesima conformazione, le differenze nascono quando la frase stessa viene portata “alla superficie”, quando “da fenomeno psichico diviene fenomeno linguistico”.[52]

Secondo lo studioso americano esistono costrutti concettuali elementari comuni a tutti gli esseri umani, per cui la traduzione interlinguistica e intralinguistica sarebbe sempre possibile, in buona misura, sempre che si riesca a tradurre le strutture profonde in strutture del linguaggio, e successivamente si applichino le buone norme dell’ermeneutica. Parrebbe, quindi che da queste tracce, il nostro discorso possa trovare un certo consolidamento, e conferme,[53] peraltro condivise anche da studiosi come Hjemslev.[54] Infatti, la distinzione tra piano dell’espressione e piano del contenuto resta valida comunque, poiché un testo è un “fenomeno culturale” connotato non solo dagli aspetti linguistico-semantici, ma anche da tutti gli elementi che formano una cultura, che è la “cultura di produzione del testo”. E ciò vale anche per la “cultura di ricezione del testo”, non solo per l’esegeta o il critico letterario. Inoltre, anche la cosiddetta “traducibilità” di un testo sottostà alle considerazioni fatte, ragione per cui, sia il traduttore, sia l’interprete debbono considerare la possibilità di muoversi tra le polisemie originarie, cercando un modo, prima di tutto ermeneuticamente fondato, di tradurle, oppure di parafrasarle, naturalmente perdendo il contesto della polisemia e anche il suo senso, a favore di un significato che abbia a sua volta senso per il recettore, interprete, traduttore o lettore che sia. La traduzione e l’interpretazione diventano, dunque, necessariamente, una specie di costrutto di meta-testo, che, partendo dal proto-testo dell’”autore” originale, giunge fino all’ambiente della sua fruizione finale.

Scrive il Broeck:

La natura dimostrativa della traduzione come testo rappresentativo non deve essere considerata solo come sussidiaria. Al contrario, essa è una delle evidenze costitutive di questa sottocategoria di rappresentazioni, dal momento in cui distingue la traduzione come un atto discorsivo, per esempio, dalla forma interpretativa di un commento critico, o di un saggio, o di simili atti meta-letterari.[55]

 

Non esiste dunque la possibilità neppure di una traduzione “neutrale”, e questa è una considerazione molto importante, per noi che ci stiamo occupando di interpretazione, cioè dell’atto successivo ad ogni traduzione e tradizione. Colleghiamo ora qui anche gli altri termini della questione, riprendendo le figure retoriche tipiche della letteratura. Metafora e allegoria sono strettamente apparentate, perché l’allegoria é una specie di metafora continuata, come le favole e le parabole. La metafora é la figura più usata nel linguaggio corrente. Ad esempio Cassirer intende così la metafora:

“[…] è il consapevole surrogato alla designazione di un certo contenuto rappresentativo mediante il nome di un altro contenuto, il quale in qualche tratto è simile al primo, oppure presenta certe mediate analogie con esso.[56]

 

Funziona dunque come metalessi tipica.[57]

La similitudine è invece un modo esplicito di paragonare una cosa o un concetto ad un altro, rilevandone gli elementi comuni, per cui, senza che si possano ritenere sinonimi, possono essere in qualche misura considerati abbastanza analoghi.

Ecco che possiamo introdurre, infine, brevemente il tema più complesso, quello dell’analogia. Anzitutto si deve dire che il concetto di analogia non appartiene a tutte le strutture logiche del pensiero umano. Si tratta di una conquista tipicamente legata allo sviluppo della logica e della metafisica filosofica greca. Nel mondo hindu l’analogia é stemperata nei concetti di attrazione o somiglianza: l’atman personale, cioè l’anima umana, é attratto verso il Brahmàn, che è l’assoluto, Dio, cui somiglia ma non analogamente. Nel mondo semitico, ebraico ed islamico, l’analogia, specie quella relativa allo spirito, anima razionale umana e Spirito di Dio-l’Eterno-Jahwè-Allàh, finisce con il costituire una bestemmia, la più grave bestemmia.

I greci, invece, hanno costituito l’analogia come una delle strutture fondamentali del ragionamento logico, suddividendola in generale in due tipologie: l’analogia di attribuzione e l’analogia di partecipazione. Ora vedremo come ci aiutano nella riflessione radicale. Se diciamo “bianco” tutti sappiamo che si tratta del colore, e siamo in grado di “attribuirlo” ad ogni oggetto che sia di colore bianco: quindi possiamo dire che “una parete é bianca come un lenzuolo” senza scandalizzare nessuno, come potremmo dire che “lo spirito, o l’anima umana assomigliano allo spirito divino per l’immaterialità e per l’immortalità, non per l’eternità e per l’essenza propria”, sempre senza scandalizzare nessuno. Se diciamo “vita” possiamo pensare, sia alla vita dei batteri e dei virus, magari esitando se attagliarla al regno vegetale o a quello animale, sia alla vita delle piante, la vegetativa, sia alla vita degli animali, la sensibile, sia alla vita dell’uomo, la razionale, sia alla vita di Dio, eterna, perfetta, felice, assoluta, impassibile – nel senso di non-raggiungibile-dal-dolore, oppure passibile, a seconda delle teologie, etc..

Abbiamo quindi la possibilità di concepire le cose in modo più ricco e vario, operando comparazioni e richiami di significato per migliorare le possibilità interpretative e la comunicazione, e così rendere più forti e convincenti, per quanto sia possibile, i rapporti umani comunicativi, gli atti linguistici e la qualità relazionale: contributo morale e sociale non di poco conto in questi tempi confusi e talora banalizzanti, sempre più a rischio di un pericolosissimo analfabetismo di ritorno.

 

[1] Cf. in ROGERS C. , MORRIS D. e altri.

[2] L’efficacia del linguaggio verbale, o logico, e di quello non verbale, paraverbale o analogico, è considerata dagli autori di cui sopra, rispettivamente, riconducibile alle percentuali del 10/15% e del 85/90%!

[3] Si consideri la situazione di una persona tenuta in stato di costrizione o spinta da circostanze di forza maggiore ad affermare certe cose, pure se non convinta.

[4] Cf. WITTGENSTEIN L., Tractatus Logico-philosophicus, Vienna 1920.

[5] Cf. CROCE B., Estetica come scienza dell’espressione linguistica generale, Laterza, Bari 1904.

[6] Cf. DE SAUSSURE F., Lezioni Ginevrine, 1907-1911; cf. anche, in tema di “paradigmi”, G.D. COVA, “Parabole e paradigmi”, in Rivista di Teologia dell’Evangelizzazione, FTER, n.ro 21, gennaio/giugno 2007.

[7] Cf. VICO G.B., La Scienza Nuova, Laterza, Bari 1960.

[8] In questo lavoro noi cerchiamo di mostrare che la simbolicità della parola riassume e comprende significante e significato.

[9] Cf. CHOMSKY N., Syntactic Structures, Ed. Le Hague, Paris 1957, 17.

[10] Cf. FREGE F. G., Begriffschrift, Berlino 1889.

[11] Cf. RAGGIUNTI R., L’origine del linguaggio. Alcuni esami filosofici del problema, in Rivista trimestrale di analisi e critica “Nuova civiltà delle macchine”, Ed. Eri – Rai, n° 1/4 – 2002; e Il problema filosofico dell’origine del linguaggio, in Il problema del linguaggio nella filosofia di Benedetto Croce, Edizioni Cadmo, Firenze 1997: “[…] L’uomo delle origini, alcuni filosofi non vogliono comprenderlo, è come un bambino che nasce privo dei mezzi di comunicazione, ma che, al contrario del bambino di oggi, non trova a sua disposizione una lingua, che altri uomini parlano e sono in grado di fargli apprendere.”

[12] Cf. CALOGERO G., Lezioni di Filosofia, Estetica, Semantica, Istorica, Einaudi, Torino 1946/1948.

[13] Ibidem, 245-246.

[14] Cf. PAGLIARO A., Logica e linguistica, in Rivista di ricerche linguistiche, Roma Gennaio – Giugno 1950, e in Il linguaggio come conoscenza, Studium, Roma 1951.

[15] Ibidem, 32.

[16]ah, oh,” etc..

[17] Ibidem, 86-87.

[18] Cf. Von HUMBOLDT W..

[19] Cf. CASSIRER E., Filosofia delle forme simboliche: il Linguaggio, Nuova Italia, Firenze 1961.

[20] Cf. PAGLIARO, cit., 58.

[21] Cf. Bibliografia su Lorenz K..

[22] HERDER J.G., Abhandlung über den Ursprung der Sprache, Strasburgo 1770, trad. it. e introd. Saggio sull’origine del linguaggio, a cura di G. Necco, Ed. Marsara, Roma 1954, cap. I.

[23] Ibidem, 9.

[24] Ibidem, 14.

[25] Ibidem, 18.

[26] Forse ascoltato e ricopiato dal rumore della suzione del latte materno.

[27] HERDER J.G., Abhandlung über den Ursprung der Sprache, cit., 41.

[28] Ibidem, 59.

[29] Una definizione del linguaggio è quella di A. Lalande: “Nel senso più largo per linguaggio si intende ogni sistema di segni che può servire come mezzo di comunicazione”, cf. A. Lalande, Dizionario critico di filosofia, Isedi, Milano 1971, 479.

[30] Tesi invece care a studiosi evoluzionisti e neomeccanicisti, atei militanti, come P. Odifreddi, M. Hack, etc..

[31] Cf. BRUNI F., L’origine del linguaggio, Studium, Roma 1958, 6-7.

[32] Ibidem, 8.

[33] Cf. MONDIN B., L’uomo: chi è. Elementi di antropologia filosofica, Editrice Massimo, Roma 1989, 154-179.

[34] Tra gli altri Heidegger, Jaspers, Gadamer, Ricœur, Florenskij, Pareyson, etc..

[35] Cf. anche in De Saussure, cit. supra, la distinzione fra linguaggio e lingua, e fra lingua e Parola.

[36] Altre dimensioni della rappresentazione linguistica, che debbono essere tenute in considerazione sono, come noto, la semantica, la gnoseologica, l’ontologica, la sociale, la psicanalitica.

[37] Su questo è lecito esprimere qualche fondato dubbio.

[38] Cf. HUXLEY T., Man’s place in Nature and other Essays, Every man’s Library, London 1933, 262, trad. it., Il posto dell’uomo nella natura e altri scritti, Feltrinelli, Milano 1961.

[39] Cf. CASSIRER E., cit., 147.

[40] HEIDEGGER M., In cammino verso il linguaggio, Mursia, Milano 1973, 27 e 189

[41] Cf. WITTGENSTEIN L., Philosophical Investigations, Mac Millan, New Jork, 1957, trad. It., Ricerche filosofiche, Einaudi, Torino 1970, 57.

[42] Non si può, peraltro, sottacere la struttura espressiva del linguaggio, che richiede la presenza di tre soggetti: il soggetto che parla [o scrive], l’oggetto di cui si parla [o si scrive], l’interlocutore o il lettore a cui si parla o per cui si scrive.

[43] Cf. POLANYI M., Personal Knowledge, La conoscenza inespressa, Armando, Roma 1979.

[44] JAKOBSON R., Saggi di linguistica generale, Feltrinelli, Milano 1974, 164.

[45] GALIMBERTI C., From communication to conversation. Models of (Pathways to) communicative interaction, o Dalla Comunicazione alla conversazione. Percorsi di studio dell’interazione comunicativa, in rivista Ricerche di psicologia, Milano, I, 1994, 11.

[46] Cf. MARC E. e PICARD D., La Scuola di Paolo Alto. Da Bateson a Watzlavick, Red Edizioni, Como 1996.

[47] Cf. BACHTIN M., Estetica e Romanzo, Einaudi Editore, Torino 2006.

[48] Cf. in bibliografia A. Maslow, K. Lewin, M. Buber, R. Carnap, R. Polanyi, A. Schökel, R. Barthes e E. Levinas.

[49] HEIDEGGER M., In cammino verso il linguaggio, cit., 109.

[50] MONTALE E., Tutte le poesie, Mondatori, collana Lo specchio. I poeti del nostro tempo, Milano 1979, raccolta Quaderno di quattro anni, 590.

[51] Linguista e filologo americano, (1928), Essays on Form and Interpretation, 1977.

[52] Cf. sito www. Logos multilingual point – dictionary linguistic resources.

[53] Cf. BROECK R. Van den, Literary Conventions and Translated Literature, in Convention and Innovation in Literature, a cura di T. D’Haen, R. Grűbel, H. Lethen, Ed. Benjamins, Philadelphia 1989, pp. 57 – 75.

[54] HJEMSLEV L., I fondamenti della teoria del linguaggio, Einaudi, Torino 1968.

[55] “The demonstrative nature of translation as text representation must not be regarded as only subsidiary. On the contrary, it is one of the constitutive features of this subcategory of representatives since it distinguishes translation as a speech act from, for example, interpretation form of critical comment, or essay, and similar meta-literary achievements”; in Broeck, R. Van den, Literary Conventions and Translated Literature, in Convention and Innovation in Literature, a cura di T. D’Haen, R. Grűbel, H. Lethen, Ed. Benjamins, Philadelphia 1989, 57.

[56] CASSIRER E., cit., 45.

[57] Si dice una Parola o una proposizione per intenderne un’altra, esprimendosi in modo più efficace o colorito. Degli esempi: “Me l’hai fatta grossa!” significa “Mi hai dato un grande dispiacere”; “Non prendermi per i fondelli” significa “Non prendermi in giro”, che é un’altra metafora, cioè “Non ingannarmi”. Oppure, se diciamo: “Quel volto é bruciato dal sole” non intendiamo che é realmente bruciato, quindi combusto, ma che é così abbronzato che sembra bruciato. La metafora distingue un significato “proprio” delle parole da un significato, appunto, metaforico.

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