Precarietas
Caro lettor mio,
ancora scrissi di precarietà, e altrove ne parlai, cercando il valore in ciò che appare solitamente come un suo contrario. Infatti, imbrattacarte (giornalisti) di ogni risma e politicanti vari son sempre lì a stracciarsi le vesti per la “precarizzazione” del lavoro, delle condizioni sociali e via andando. In realtà, questi signori, con l’aggiunta di una pletora di giuristi e ben-pensanti politically correct, forse non ricordano il progresso formidabile dei diritti sociali in Italia, e del diritto del lavoro negli ultimi cinquanta anni, dalla legge 604 del 1966 che introdusse il divieto di licenziamento nelle aziende con almeno 36 dipendenti, se non per giusta causa o giustificato motivo, diritto ampliato alle aziende con almeno 16 dipendenti dallo Statuto dei Diritti dei lavoratori (L. 300) del 1970. Fino al 1966 era possibile licenziare un padre di famiglia dal venerdì al lunedì con un cenno della mano, sia in un’azienda artigiana, sia alla Fiat. E altri legittimi diritti conquistati, negli anni successivi, anche al femminile: parità di trattamento, lavoratrici madri, etc.
Nel Pubblico Impiego, invece, tutto è continuato su un piano di eccessivi garantismi, che solo ora si riesce un poco a scalfire, in nome di una maggiore equità del diritto tra i veri settori e mercati del lavoro.
In quarant’anni si è parlato giustamente di diritti conculcati e da conquistare, tralasciando un poco il discorso sui doveri, che pareva ai più esser scontato. Ma non è così, perché nell’umano nulla è scontato, ma ogni cosa deve essere ripresa, ricordata, rimessa in circolo.
Ora qualcosa è cambiato, ma la cultura introiettata molto spesso non accetta questo cambiamento. Vi sono persone che chiedono solo che cosa gli è garantito, o che cosa viene offerto, prima ancora di chiedere di che lavoro si tratta. Vi sono persone che, se gli offri un’opportunità, ti chiedono quanti dipendenti e che fatturato ha quell’azienda, perché se no… Se no che cosa?
E darsi da fare per aumentare il mercato e il fatturato di quell’azienda che offre l’opportunità? No? Sempre qualcun altro deve occuparsi di offrire garanzie, sinecure, certezze?
No? La maledetta precarietà.
Forse che è proprio la fonte e l’origine della creatività e del progresso sano, proprio ciò che ti costringe a inginocchiarti di fronte al tuo limite, per superarlo e andare avanti? La precarietà è una condizione di preghiera, una condizione psicologica, una condizione-limite che ti costringe a non dare per scontato nulla, ma a ritenere che tutto è dono, tutto è per-dono, quindi dono reiterato, nella semplice condizione della propria grandiosa piccolezza e dell’impegno responsabile, paziente e quotidiano.
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