Villa Ottelio Savorgnan sul fiume Stella ad Ariis di Rivignano

Il giorno del giudizio

i-piccoliLeggiamo insieme il brano di Matteo da 25, 31 a 46, dove l’evangelista racconta della scelta dei poveri, gli anawim, gli ultimi, cui il Signore offre particolare attenzione e misericordia, sentendo pietà per la miseria e il limite umano fin nei suoi visceri, detti in ebraico rahumin, cosicché il suo giudizio terrà conto soprattutto del “cuore”, cioè dei veri sentimenti, della autentica vocazione umana, quando, nella parusìa, la seconda venuta, evocata anche dal Corano (Sura 43, 59-61), verrà a giudicare i vivi e i morti.

Il cardinale Carlo M. Martini, in una sua meditazione proposta durante gli Esercizi spirituali ignaziani alla luce del Vangelo secondo Matteo (pubblicati da ADP, Roma 2006, pp. 33-47), riflette sul brano ponendosi molte domande, la prima delle quali è se la fede sia prevalente sulle opere, seguendo Paolo, Agostino e Lutero, oppure se le opere siano una specie di veicolo della fede, soprattutto le opere che riguardano il riconoscimento del prossimo, come oggetto d’amore disinteressato e libero.

In realtà, spiega Martini, non c’è contrapposizione tra fede e opere, perché l’una illumina e le altre esprimono la coerenza esistenziale e morale del fare il bene. Se uno fa il bene per “essere visto” dagli altri, scrive Matteo (6, 1-18), non deve aspettarsi un premio spirituale, poiché già gode del riconoscimento umano. Se uno invece fa il bene per essere dentro le cose è diverso, perché si mette in gioco, non limitandosi a osservare come un entomologo ciò che accade. Essere-dentro-le-cose significa non calcolare tutto, le convenienze o il loro contrario, il successo o lo schianto, ma rischiare di essere portati al largo dalle onde oceaniche della vita.

Il fatto è che spesso non ci riconosciamo come bisognosi di aiuto, come portatori di limite, come “poveri”, uguali a quelli che a volte aiutiamo, e a volte ignoriamo. Viviamo talora nel risaputo, nelle comodità concettuali, nell’ordine costituito dalle nostre pigrizie, e finiamo per ragionare con stereotipi, perseguendo la tranquillità di un’anima non più inquieta, ma chetata dalla consuetudine oppure ottenebrata dalla presunzione. Talvolta siamo onesti a-ore, oppure quando ci conviene, e qui non intendo l’onestà morale, ma l’onestà esistenziale, l’onestà di giudizio sulla propria vita. Forse abbiamo tutti bisogno a volte di farci bambini e di chiedere al Signore di tutto “che cosa devo fare?”

Ecco che, a questo punto, il capolavoro di Michelangelo inaugurato nel 1541 da papa Paolo III Farnese (morto era oramai il committente primo della Sistina, papa Giulio II della Rovere), il Giudizio Universale, diventa plausibile, concepibile, realistico, perfino.

E’ la fine della storia, è l’omega del mondo, il momento nel quale qualcuno, proprio Lui, tira le somme e vede dentro il cuore di ognuno, se abbia veramente amato, se abbia amato con calcolo, se non abbia amato per nulla… l’altro, l’altra, il piccolo e il grande.

Nel grande a-fresco del genio Buonarroti, i corpi sono nudi, prima che Daniele da Volterra, morto lui, ne coprisse discretamente le pudenda, perché nudi siamo di fronte alla nostra anima e di fronte a Dio, nudi alla meta, come re detronizzati, come alberi maturi, come canne al vento, anche se pensanti.

E questa nudità sarà ciò che ci salva, davanti al giudice severo del tempo, di ogni azione fatta od omessa, e di ogni pensiero pensato.

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