Andarsene
un signore di Treviso, malato di SLA, morbo progressivo dei mononeuroni, atti a trasmettere le decisioni di movimento dal cervello ai muscoli, che blocca le funzioni dei muscoli volontari stessi, la loro atrofizzazione e la paralisi degli arti, ha chiesto una sedazione profonda per andarsene. Dino era cosciente di essere agli ultimi e, dopo l’ultima grave crisi respiratoria, ha voluto iniziare l’ultimo suo cammino terreno.
“La sera del 5 febbraio la Guardia medica ha aumentato il dosaggio del sedativo che già l’uomo prendeva via flebo e il giorno successivo la dottoressa dell’assistenza domiciliare ha iniziato a somministrare gli altri farmaci del protocollo. Non ha mai chiesto di spegnere il respiratore, nonostante la legge lo consenta nei casi di sedazione profonda – riferisce l’infermiera – anzi, lo terrorizzava l’ipotesi di morire soffocato. Ha optato per una scelta in linea con la legge, la bioetica e la sua grande fede”. E soltanto poche ore fa, quando la moglie gli ha assicurato di aver fatto tutto quanto le aveva chiesto, Dino si è lasciato andare. (dal web)
Quando la coscienza giunge alla consapevolezza del limite umano, fisico e psico-morale, può e deve decidere, anche se -resto convinto- non si tratta di una decisione che esalta una libertà liberal-radicale à la Stuart Mill, ma una libertà dolente, à la Kierkegaard, Sartre, Tommaso d’Aquino, padre Fabro: un “volere ciò che si fa“, là dove la volontà è sovraordinata all’azione, non il contrario.
Infatti, nel classico, liberalissimo e un po’ banale “fare ciò che si vuole“, l’azione è prevalente sull’atto decisionale libero, nella versione opposta è prioritaria la volontà. Una volontà che si delinea nell’ambito di un arbitrio soggettivo, limitato dall’umana condizione, ma certissimo.
L’atto di volere è un atto complesso che parte dalla riflessione e si articola in diverse fasi, fino alla deliberazione e all’azione. Quanto l’atto volontario sia determinato dalla scelta soggettiva fatta dentro un contesto di libertà è proporzionato alle condizioni oggettive percepite dalla persona e dalla sua capacità di sopportazione, sempre soggettiva.
Se è vero che possiamo disporre completamente solo di beni in nostro possesso, è altrettanto vero che sulla nostra vita, dataci mediante una decisione dell’inizio, che non ci ha coinvolti, abbiamo un mandato di custodia ragionevole, e l’ultima parola in quanto tutori morali e legali di noi stessi. Non condivido un principio di autodeterminazione assoluta, che tende a confondere sempre di più un andarsene cosciente per rinunzia a trattamenti inutili, con l’eutanasia, nome ossimorico, giustapposizione del concetto greco di bene, eu, con il nome della morte, thanatos. E non lo condivido, più ancora che per ragioni di etica della vita umana, per ragioni estetiche, legate all’àisthesis, cioè alla manifestazione aristotelica dell’essere delle cose. Il mio rifiuto delle pratiche eutanasiche è fondamentalmente filosofico, dovuto a un giudizio sereno sulla natura del nostro essere-al-mondo e sul nostro naturale andarcene.
Non siamo stati interpellati se volessimo esistere e pertanto, coerentemente, ora che siamo al mondo, constatiamo un limite razionale al nostro arbitrio sulla fine terrena. Non si può decidere di un qualcosa che in parte ci sfugge indefinitamente, ma si può decidere sulle modalità di un cammino -già determinato e ineluttabile- che conduce alla porta di uscita, nella speranza che si apra sulla Luce senza fine.
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