…kài èiden kài epìsteusen, e vide e credette nel Crocifisso Risorto
Scegliendo tra i quattro racconti della Passione di Cristo, cito il versetto 8 del capitolo 20 del vangelo secondo Giovanni, per centrare il cuore della fede cristiana. Se non c’è la sequela dell’atto di fede attribuito dal redattore di quell’evangelo all’apostolo che Gesù amava, non c’è fede cristiana, come scrive con nettezza san Paolo nella Prima lettera ai Corinzi al capitolo 15 versetto 14, (…) Ma se Cristo non è risuscitato, allora è vana la nostra predicazione ed è vana anche la vostra fede. (…)
Il discepolo che Gesù amava (Giovanni?) aveva corso più di Pietro, più anziano, ed era arrivato prima al sepolcro vuoto. Era stata Maria di Magdala, amica e discepola del Maestro, ad avvertirli, dopo che lei la mattina del giorno dopo il sabato si era recata prestissimo, ancora con il buio al luogo dove avevano deposto Gesù, nella tomba nuova messa a disposizione da Giuseppe d’Arimatea. Il buio è la prima pennellata del racconto, un buio profondo, che può essere anche simbolo della solitudine di quella donna, e di chi stava con il Rabbi di Nazaret, ucciso con disonore due giorni prima.
Poi arrivano Pietro e “Giovanni” è trovano la tomba vuota, il sudario che aveva avvolto il corpo del Maestro e la benda messa sul volto, piegata in un angolo (entetuligmènon, verbo greco medio-passivo). Il crocifisso risorto. E poi il racconto, anzi i quattro racconti proseguono.
Ma io qui, in un tempo tremendo che non voglio descrivere perché tutti lo conoscono, e parlo del tempo che viviamo, di guerra a pezzi e di sfacelo della ragione umana, mi soffermo sulla simbologia profonda del Crocifisso e del Risorto. Anche per chi non crede sono la più potente sintesi della vita umana, che si dipana e si declina tra dolore e suo superamento, e anche perfino gioia.
Ogni dolore umano è una “crocifissione”, nelle sue mille gradazioni, e ogni suo superamento, anche parziale, è una “risurrezione”. La vita umana è contenuta tra queste due polarità, ogni giorno, per ogni essere umano, da sempre, per cui ognuno di noi può chiedersi, con Kant, che cosa posso sapere, che cosa è giusto fare, che cosa posso sperare? E allora viene in soccorso la mente (lo spirito), declinata nell’intelletto e nella ragione che opera, se vogliamo, seguendo la logica argomentativa naturale, base necessaria di ogni ricerca di ciò che sia bene o male per l’uomo stesso. Prima di ogni scelta eticamente fondata occorre “mettere in moto” la ragione, cosa non semplice e non molto diffusa ultimamente, sembra. Che cosa sono gli attentati, gli omicidi, le minacce, le guerre asimmetriche, gli imbrogli finanziari, i fanatismi di ogni genere e specie, da quelli religiosi a quelli alimentari, il rifiuto di ogni compassione umana, la stupidità diffusa, debordante, in molti ambienti. L’elenco non mette tutto sullo stesso piano, ma costituisce uno scenario dove i fenomeni sono apparentati da un uso insufficiente o negativo della ragione, con una prevalenza delle peggiori passioni.
La tentazione è quella di ritirarsi, di far finta che non ci sia nulla, o comunque che non si possa far nulla per migliorare l’umano, la cui struttura mentale è quasi identica a quella di mezzo milione di anni fa. Ma non è così che si deve fare, poiché ogni momento è il momento per intervenire, senza strafare, con le proprie forze, anche nella debolezza, ché le opere contano sempre meno delle intenzioni al bene.
Qui sotto troviamo la risposta di Paolo, il quale intende dire di aver fatto quello che ha potuto con le opere, ma soprattutto con l’ausilio della fede, certamente in Dio, ma anche nell’uomo di volontà buona.
“Ho combattuto la buona battaglia, ho terminato la mia corsa, ho conservato la fede” (2 Timoteo 4, 7).
Vale sempre la pena provarci, proprio perché il Crocifisso è Risorto.
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