La pazienza e il perdono, l’offesa e la riparazione, tra pars destruens e pars construens dello spirito
La pazienza è virtù costitutiva della fortezza secondo Aristotele e Tommaso d’Aquino. Ne è parte integrante e fondamentale come capacità di patire (pathos), di sopportare (subfero) anche dolore e avversità, e quindi di supportare sé e gli altri nei percorsi più faticosi della vita e del lavoro.
La pazienza edifica nel tempo e permette di discernere il valore delle cose. L’impetuosità e il moto temerario sono il contrario della pazienza: sono improvvisazione e rischio, come quando si guida un’auto ritenendo di essere i padroni della strada, e non si rispettano le regole e i diritti degli altri utenti.
La pazienza è anche un’ascesi e un codice: ascesi in quanto esercizio mentale e fisico, codice in quanto capace di indicare i tempi e i modi del comportamento.
La pazienza, nel caso di una situazione di ingiustizia subìta, non può durare sine die, perché rischia di trasformarsi in rabbia, quando il senso di ingiustizia vissuto nell’attesa supera le capacità di sopportazione della persona, e quindi la forza della pazienza disponibile.
Può riguardare offese ricevute direttamente o da una persona cara, cui non si è reagito per ragioni di ordine logico e per opportunità nel momento dell’offesa, ma tale stato d’animo non può rassegnarsi a una immodificabilità senza fine, poiché ha bisogno di chiarimenti e a volte di scuse, affinché possa risanarsi un ambiente relazionale. Ciò avviene nella vita quotidiana e anche sul lavoro, ché il meccanismo mentale funziona sempre allo stesso modo.
Il perdono, come dice la parola stessa è un dono-iterato, cioè un dono ripetuto, più grande di qualsiasi altro, perché ha a che fare con l’offesa e la pazienza della sopportazione.
L’offesa, la fatica, la pazienza e il perdono sono nel flusso delle cose, appartengono al vissuto quotidiano e alle relazioni interumane. A volte non ci si rende conto di ferire con le parole, oppure ci si rende conto e si decide di farlo ugualmente, perché in preda alla collera o convinti di avere ragione. In quel caso la pazienza dell’offeso, che viene colpito da un’azione destruens, deve riuscire a razionalizzare i fatti non reagendo, se possibile, in modo vendicativo, e quindi avviando una fase construens, di cui, però, il “distruttore”, deve essere informato per potervi partecipare, se umilmente ammette di essere stato “distruttore” e desidera rimediare.
Il tutto appartiene, tra le varie “etiche”, a un’etica del fine, dove il fine è proprio l’essere umano, nella sua integralità e integrità, che deve essere rispettata sempre e comunque, anche se carcerato per giuste ragioni e in ogni caso, distinguendo, nel caso del carcerato, l’espiazione della pena dovuta da indebite punizioni aggiuntive, come spesso accade anche in Italia. Nel caso della persona libera ogni angheria limitante la libertà individuale è inammissibile, illegale e profondamente immorale, da combattere, condannare ed eliminare.
Solo in quel caso il perdono per il male subìto ha ragion d’essere e produce buoni frutti, altrimenti è solo buonismo un poco evitante, per nulla coraggioso o formativo, e forse anche un poco vigliacco. Occorre far introiettare questi semplici principi morali ai ragazzi, fin dal primo sviluppo infantile e adolescenziale, o altrimenti cresceranno nell’ambiguità e in una forma di sottile accettazione della soperchieria e della sopraffazione, come accade nei noti contesti di familismo amorale, ma anche in situazioni definibili “normali”, ancora molto diffuse.
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