Villa Ottelio Savorgnan sul fiume Stella ad Ariis di Rivignano

Sindacato, sindacati ieri e oggi… e domani?

Ho vissuto il sindacato dall’interno, nella “vita precedente” (per modo di dire), fino a ruoli importanti, regionali, nazionali e internazionali (per un anno sono stato co-presidente dei sindacati della Comunità Alpe-Adria, di cui facevano parte sloveni, croati, carinziani e stiriani, oltre ai veneti e ai friulo-giuliani). Ricordo “gaudiosi” congressi autocelebrativi cui ho partecipato, a Zagabria, Lubiana, Graz, Stoccolma, Bruxelles…, oltre alle grandi kermesse nazionali a Roma, Milano, Rimini, e via andando.

Ne conosco bene la storia travagliata, spesso gloriosa agli albori, e ne osservo l’attuale declino, che mi preoccupa. Secondo una logica e un’etica utilitaristica dovrei più o meno disinteressarmene, ma non è nella mia natura e nel mio stile. Quando dirigevo pezzi importanti del sindacato ero attento ai temi e problemi dei lavoratori, ma avevo ben presente la “connessione necessaria” con le imprese, cioè l’esigenza di considerare la salute economica delle aziende come area di interesse primario dei lavoratori stessi, non per ritenere che gli interessi della parte datoriale e quelli dei dipendenti coincidessero, ma perché per me era chiarissimo come vi fossero dei punti di tangenza e di sovrapposizione logica, quasi campi semantici comuni, tra sviluppo aziendale e occupazione. La mia era una posizione, si diceva allora, dialogico-riformista, socialista democratica, e andrebbe bene anche oggi, sia come linea politica, sia come definizione dottrinale.

Anche allora vi erano posizioni diverse, più o meno anti-padronali o talora non poco ambigue. Vi era una vera e propria spaccatura tra sindacati dei settori privati, industria, agricoltura e servizi, e sindacati del pubblico impiego, che si percepiva nelle riunioni comuni e nei congressi. Le differenze erano più marcate tra “pubblico” e “privato” che non tra le tre Confederazioni Cgil, Cisl e Uil.

Il gruppo dirigente a livello nazionale, quando c’ero io, era di primissimo livello: basta citare qui i segretari generali di allora Lama, Carniti e Benvenuto, ma vi erano anche personaggi come Trentin, Bentivogli, Mattina, Veronese, con i quali si dialogava volentieri. Finita quella generazione ecco il diluvio della mediocrità. Dopo tredici anni sono uscito da quel mondo per andare a fare il Direttore del personale in Danieli e poi… ho già raccontato qualche giorno fa.

Con un gruppo di bene-intenzionati avevamo iniziato a lavorare sulla cultura del sindacato, ispirandoci anche alle posizioni più aperte al mondo e ai nuovi equilibri, come quella di Alex Langer, per molto tempo co-ispiratore del gruppo. Si “faceva sindacato” con un occhio ai nuovi lavori, all’universo femminile, ai giovani sempre più scolarizzati che si affacciavano al mondo del lavoro, e si scriveva, avevamo una rivista “Verde-Uil”, per dire che amavamo le novità, la viridescenza primaverile delle idee, senza gerarchie organigrammatiche, in seminari aperti a ricercatori ed imprenditori, con l’orecchio attento ai suoni del mondo e alla incommensurabile differenza delle sensibilità individuali.

Quel mondo di curiosità e di ricerca entusiastica si è fermato una ventina di anni fa. Il sindacato italiano, nonostante l’89 epocale della politica si è sempre più rinchiuso in se stesso, rinforzando le culture corporative e aumentando le divisioni, con contratti separati (ad esempio, dei metalmeccanici negli anni 2000), perdendo di vista la dimensione della ricerca e l’entusiasmo del procedere senza autolimitazioni, ispirati solamente dal rispetto delle regole e dalla reciprocità fraterna.

Ricordo momenti bellissimi di formazione quadri in Trentino, Sud Tirolo, Toscana, Garda, Carnia, Umbria… E la memoria in qualche modo rivendica la correttezza di quella linea ideal-pratica contro l’inerzia attuale.

Alla fine della mia esperienza sindacale ho perfino promosso una ricerca mia privata con l’aiuto di un amico sociologo, sulla “ricollocabilità” dei funzionari sindacali alla fine dell’aspettativa prevista dalla Legge 300/ 70 (Statuto dei diritti dei lavoratori) all’art. 31, tanto per farmi un’idea. In realtà, sul campione di una cinquantina di curriculum vitae di colleghi del Nordest, solo il 10%, cioè cinque persone, sarebbe risultato ricollocabile al lavoro in posizioni analoghe a quelle del prestigioso incarico sindacale, tra cui tre del pubblico impiego, io e un mio caro amico che ancora veleggia per rotte sindacali. Gli altri 45 avrebbero dovuto “tornare in linea” ad un lavoro operaio neppur tanto qualificato, rinunziando a segretarie, ufficio personale, viaggi aerei e alte frequentazioni con politici e imprenditori. E così costoro sono rimasti lì, spesso con grande sussiego (ricordo in particolare alcuni che non cito, per carità, ma di uno dico che è della Bassa friulana, pieno di boria) ad alimentare una immarcescibile burocrazia sempre più invecchiata, se non sono riusciti a fare il “salto in politica” come consiglieri regionali o deputati a diecimila euro al mese, o nel mondo della cooperazione, destino di molti, per la garanzia della pagnotta. Di quella generazione friulo-veneta sono stato l’unico a buttarmi in acqua “dove non si tocca” e a misurarmi con il mercato della consulenza direzionale e della formazione. Ed eccomi qua, ancora in beata solitudine.

Una nazione senza sindacati è pericolosa, lo dimostra la storia recente dell’Italia: i sindacati sono stati non solo co-autori di un riformismo democratico nel diritto e nella prassi gius-lavoristica, camera di decantazione e di interpretazione delle tensioni sociali, ma anche un baluardo inespugnabile da parte dell’estremismo e del terrorismo dei decenni scorsi.

Ma un sindacato come quello di oggi è chiaramente insufficiente, non all’altezza degli enormi cambiamenti in atto, e dell’esigenza di costituirsi come soggetto guida del mondo lavorativo. Anche il personale politico delle strutture sindacali è meno qualificato dei decenni passati, a volte si mostra in grave difficoltà nella dialettica delle relazioni industriali e nella rappresentanza stessa dei lavoratori. La cultura media dei sindacalisti a tempo pieno arriva più o meno al diploma, i laureati sono pochissimi, presenti soprattutto nel pubblico impiego. Pur conoscendo bene il loro linguaggio, i loro riti e i loro miti, io stesso talora faccio fatica a sopportarli, quando inavvertitamente si mettono sullo stesso piano dell’interlocutore discutendo di Risorse Umane, di Valutazione del personale, di Analisi del clima, di Formazione, Selezione, etc., oppure di Etica d’impresa e del lavoro. Questo interlocutore magari sono io, con esperienza pari o superiore alla loro in campo sindacale, e ben altra preparazione culturale e accademica rispetto a loro, peraltro anche molto specifica sui temi trattati. La rabbia allora sbollisce un poco nella pena per una situazione così povera.

L’altro aspetto è quello della rappresentanza dei lavoratori: sempre di più giovani ingegneri, economisti, tecnologi mi dicono “ma come faccio a farmi rappresentare da quelli, se non capiscono non solo quello che so, ma neppure quello che faccio in azienda?”

Qualcuno anni fa aveva proposto di creare percorsi specifici nelle Facoltà di Scienze politiche o Giurisprudenza, ad Economia come a Filosofia e Psicologia, per formare il personale politico del sindacato. Lo avevo proposto anch’io all’Università di Udine quando era rettore il valoroso Professor Franco Frilli. Oggi, senza una preparazione universitaria non si può reggere credibilmente un ruolo di rappresentanza professionale nel sindacato.

Certamente Di Vittorio aveva forse la quinta elementare, ma erano altri tempi e altre tempre di uomini. Mi inchino alla loro grandezza umana, politica e morale.

Che fare dunque, se il sindacato è indispensabile all’equilibrio socio-politico ed economico di una grande Nazione come l’Italia? “Rimboccarsi le maniche” del cervello e studiare umilmente, indefessamente, a lungo, per poter comprendere i segni e i problemi dei tempi che viviamo e dare una mano. Orsù sindacati, sveglia!

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