Villa Ottelio Savorgnan sul fiume Stella ad Ariis di Rivignano

I terroristi sono infelici

Chi mi conosce o mi legge qui sa bene che non amo né il concetto, né il “nome” della felicità, perché mi paiono ambedue troppo ridondanti e soprattutto irrealistici. Come anche ultimamente ho scritto preferisco il termine “gioia”, gaudio, sentimento e stato psicologico che può convivere -intersecandolo e mitigandolo- anche con il dolore.

Seconda premessa: nel titolo vi è il termine “terroristi”. Ebbene qui non intendo tutte le fattispecie di “terroristi” che si siano mai mossi nelle vicende umane. Non intendo gli ebrei “zeloti” che combattevano i Romani, né i circoncellioni dei tempi di sant’Agostino, né gli ashasins arabi; non i militanti del “Terrore” rivoluzionario francese di fine ‘700, gli anarchici ottocenteschi alla Felice Orsini o Gaetano Bresci; non intendo i serbi della Mano nera (Gavrilo Princip ne faceva parte), e nemmeno quelli dell’Irish Republican Party militare; neppure gli ebrei di Stern e Irgun, di cui fu militante Menachen Begin, i GAP partigiani in azione nella Guerra civile italiana del ’43-’45; non mi riferisco né ai più recenti NAR, né alle Brigate Rosse o a Prima Linea. E infine forse neppure del tutto ai terroristi “intellettuali” alla Bin Laden o Mohammed Atta. Troppo diversi gli “attori” delle categorie citate sopra, tra le quali vi erano e vi sono terroristi in senso stretto (Al-Qaèda) e militanti politico-militari, che utilizzavano il “terrore” come estremo rimedio in situazioni limite (GAP, IRA?), o altre forze che terrorizzavano con chiari e spietati messaggi (Brigate Rosse).

Tutte queste categorie di terroristi hanno usato armi da taglio e da fuoco, messo bombe, compiuto attentati, con o senza intenti suicidiari. Qui, invece, mi riferisco all’ultima generazione di infelici che accoltellano, investono, fanno saltare auto e camion-bomba, si fanno esplodere, sparano per spaventare un mondo che odiano da tempo o hanno imparato rapidamente a odiare, e vogliono colpire nel suo stile di vita, nelle sue certezze, senza distinguere tra le vittime. Attentati in tutto il mondo, sempre più frequenti da oltre un quindicennio. Non dimentichiamo che comunque il maggior numero di vittime causate da questo tipo di terrorismo 2.0 post ventesimo secolo è di religione musulmana. Giustamente ci impressionano i quindici morti e i cento feriti di Barcellona, ma a Bagdad, Aleppo, Nairobi, Homs, Mosul, in Indonesia, in Pakistan, in Tunisia e in Nigeria, a Kabul e a Mumbay, Istanbul, Ankara, Sinai,  etc., le vittime si contano spesso a centinaia. Anche se teniamo conto delle Twin Towers nel 2001, di Atocha nel 2004, di Londra, Parigi, Bruxelles, Nizza, Mosca, Berlino e Barcellona, dove son morti europei e americani soprattutto, il confronto tra i due terrificanti bilanci non regge. In Asia e in Africa la filiera del terrore fa sempre più morti, spesso neri, sempre poveri e quasi sempre musulmani.

Ma noi europei (americani e australiani compresi) facciamo fatica a capire quello che sta succedendo, e come mai siamo pienamente coinvolti da questa terribile stagione di sangue e di morti insensate.

Molti oggi cercano di analizzare le tipologie socio-psicologiche di questa generazione di killer senza remore.

Che gli Occidentali abbiamo molto da farsi perdonare per le politiche coloniali dell’ultimo secolo e mezzo e fuori questione. Senza tornare all’Impero di Vittoria regina, basta che ricordiamo la follia dei franco-inglesi (accordo di Sykes-Picot) dopo la Prima guerra mondiale che definirono con riga e squadra i confini di Siria, Irak, Turchia, Iran, Libano, cioè di tutto il Vicino Oriente, con la nazione Curda presente in quattro di questi stati, o alla pazzia menzognera di Bush&Blair con la Seconda guerra del Golfo, o a quella idiotissima idea di Sarkozy, che nel 2011 volle morto Gheddafi, per comprendere qualcosa almeno, delle origini di questo sfacelo.

Che il mondo musulmano (e in particolare arabo-musulmano) abbia bisogno di una specie di “Rinascimento filosofico-religioso e politico”, che gli permetta di fare un passo in avanti nella separazione tra religione, società e politica è fuori questione, così come lo stesso mondo cristiano ha dovuto aspettare il diciannovesimo secolo per separare trono e altare,  bisogna riconoscere che su questa strada si sono incamminate, pur tra mille contraddizioni, diverse loro grandi nazioni, come il Marocco, l’Algeria, la Tunisia, l’Egitto (a proposito, se è indispensabile fare piena luce sul delitto Regeni, è pienamente legittimo e opportuno il ritorno dell’ambasciatore italiano al Cairo), la stessa Indonesia, e che l’Iran stesso merita grande attenzione,  e la grande nazione turca pure, nonostante -appunto- Erdogan, ambiguo e cinico.

Non è credibile che questi ragazzi si basino “coscientemente” su un certo letteralismo violento presente nel Corano, testo scritto per popolazioni nomadi di un millennio e mezzo fa, probabilmente analfabete. Analogamente, ad esempio, almeno dai tempi di Origene, i cristiani sono in grado di interpretare i libri biblici in modo allegorico, come insegnava la “scuola alessandrina” di Clemente e Origene stesso, o tipologico, come insegnava la “scuola antiochena” di un Teodoro di Mopsuestia: in entrambi i casi il testo biblico, per dire quello del Primo libro dei Re, particolarmente connotato da efferata violenza, veniva visto come immagine o lezione divina che punisce il peccato dell’uomo in maniera esemplare, con un linguaggio diretto e popolaresco, proporzionato al comune sentire e alla etno-cultura e sociologia di quei tempi arcaici, i tempi dell’occhio per occhio, dente per dente, vita per vita. Lo stentoreo urlo di questi ragazzi Allah-hu Akbar, Dio è grande, ha un che di disperato e di infelice, per nulla prodromo e promessa di improbabili “paradisi” ultraterreni.

Veniamo ora un attimo al cuore del tema, al conflitto civile e intra-religioso siro-irakeno. Dopo la sconfitta e la morte di Saddam Hussein e l’implosione siriaca, il vecchio Partito Baath si è spappolato e migliaia di quadri politico-militari si sono trovati sotto le accuse del mondo. Dove sono andati? Hanno costituito il nerbo dell’Is (o Isis, se si vuole), ora in procinto di essere militarmente sconfitto. Ma, come sempre, dopo le guerre civili, che sono le peggiori guerre (Mario vs. Silla, Pompeo vs. Cesare, Ottaviano Augusto vs. Marco Antonio, la Storia non insegna proprio nulla!), la diaspora dei combattenti si disperde in mille rivoli di odio e di azioni dettate dall’odio, dalla mancanza di prospettive, da un nichilismo di fatto che nessuno riesce a recuperare, finora.

Oltre a costoro vi sono i foreign fighters europei, nordafricani e vicino-orientali, e magari anche ceceni o pakistani. Ecco, questo è il punto che riguarda questa fase in Europa. Bastano poche centinaia di individui che oggi definiamo “radicalizzati” per costituire una rete terroristica fatta di cellule più o meno indipendenti, ispirate dai messaggi semplici e ignoranti di un Al Bagdadi di turno. Giovani di periferia, spiantati, magari dediti alla piccola criminalità, perennemente connessi sui social, sempre più giovani e quindi indifesi dal punto di vista della più semplice logica umana.

Non mai sorridenti, talora irridenti, quasi a volersi prendere una rivincita verso questo mondo che li ha accolti, ma non come pensano “sarebbe stato giusto”.

Il mix ideologico-morale è micidiale: a) frustrazione, b) gelosia per modelli di vita diversi, c) spirito di vendetta, d) desiderio di mostrare la propria forza, e) nichilismo distruttivo e autodistruttivo… Il tutto su un sostrato di ignoranza micidiale, che rende vittime questi psichismi elementari facilmente indottrinabili e manipolabili da esperti predicatori dell’odio, in persona  e sul web.

Per questo nel titolo scomodo il tema dell’infelicità, come sentimento e stato psichico di frustrazione estrema, di delusione di se stessi, di autostima sotto i tacchi, di mancanza di ogni progettualità, di imitazione sterile e inefficace di altri modelli di vita. Rayban e kalashnikov allora stanno insieme, si tengono, come il consumismo e la impazienza di fare qualcosa di clamoroso e di “forte”.

Il fondo e lo sfondo di tutto questo è dunque una forma di in-felicità, come disprezzo di ogni fe-condità, che è la vera matrice di un equilibrio mentale e fisico, culturale e sociale, che possa definirsi, con qualche opportuna cautela, perfino “felicità“.

Per questo questi giovani e talvolta giovanissimi terroristi sono degli “infelici”.

Da qui dovrebbe partire una riflessione profonda in tutto l’Occidente, che deve difendersi anche materialmente con tutte le sue forze, ma anche con tutta la sua capacità culturale e politica, con tutta la sua immensa storia, con il dialogo e con la fermezza, con la collaborazione e l’affermazione dei principi di convivenza civile e democratica che anche qui da noi sono costati secoli di fatica, di dolore  di sangue, cui non si può e non si deve rinunziare.

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