Villa Ottelio Savorgnan sul fiume Stella ad Ariis di Rivignano

assenze e assenteismi

I concetti e i termini linguistici del titolo derivano dalla struttura verbologica latina del verbo essere, sum, sono, cosicché ab-sum significa sono da, cioè sono distante, non sono qui, sono assente. Essere assenti non è un male-in-sé, anche perché non si può essere presenti ovunque dove si sta di solito, o altrove, e neppure nello stesso momento, come insegnava sapientemente Aristotele. Non si può essere e non-essere nello stesso momento e nello stesso luogo (o in altri).

La filosofia occidentale ha studiato il tema dell’essere da oltre duemila cinquecento anni, e anche della sua assenza, cioè il non-essere. Al di fuori dei miei doveri di lavoro e d’altro, liberamente assunti, a me è sempre piaciuto essere-assente, non enfatizzando mai la mia presenza, e a volte andarmene, magari da convivi troppo lunghi, o da posizioni di lavoro, nel pieno delle mie prerogative, cosicché ho lasciato spesso profumo di rimpianto e anche un po’ di nostalgia in chi rimaneva lì. Ho sempre rifuggito le pesantezze dello stare-lì-per-forza, per mancanza di alternative, o per rassegnazione altrui, soprattutto nelle varie attività che ho svolto, lasciando le quali ho mantenuto rapporti veri, buoni, leggeri.

Infatti, a volte l’assenza è benefica, positiva, ri-costruente. E’ bello mancare, fare silenzio, non apparire, anche se si è da qualche parte. Anche Parmenide di Elea potrebbe essere d’accordo, e dare quasi ragione al suo fiero “avversario” Eraclito di Samo,  se intendiamo l’essere come una sorta di costante dinamica di ogni cosa e di tutte le cose e persone, un sostrato indefettibile ed eterno, ma non statico, una specie di eterno divenire, come l’acqua che scorre sotto un ponte fermo, fatta di molecole sempre diverse, ma comunque composte di due atomi di idrogeno e di uno di ossigeno. Gustavo Bontadini e il suo allievo, il padre domenicano Giuseppe Barzaghi, cui sono gratissimo, perché è stato uno dei miei maestri di metafisica, sostengono l’apparire e lo scomparire dell’essere come una specie di oscillazione all’evidenza o all’inevidenza della percezione umana, non come scomparsa dell’essere. Emanuele Severino è convinto dell’eternità degli enti che assumono l’essere apparendo, ma forse sarebbe meglio parlare di immortalità, nel senso che vi è un momento in cui appaiono, come questo mio atto di scrivere ciò che sto scrivendo, e questo atto diventa immortale… quantomeno ex parte Dei, vel sub specie aeternitatis: dal punto di visto di Dio ciò che appare all’essere non può mai venire meno, neanche se lo volesse Lui stesso. Un limite alla sua onnipotenza? no, il rispetto della creazione da parte sua. L’atto dell’aver scritto questo pezzo è ineliminabile, non solo dal web (chissà?), ma dal mondo e dal tempo. Che meraviglia poter introdurre il tema delle assenze e poi degli assenteismi partendo da così “in alto”!

De l’assenza si può dire anche molto altro, ma ora voglio dire qualcosa di una sorta di sua deformazione, cioè degli “assenteismi”, sotto il profilo etico, giuridico, socio-politico, contrattuale, sindacale e dell’organizzazione aziendale.

Nella legislazione specifica e nei contratti di lavoro vi sono diversi istituti vincolanti le parti in causa, datore di lavoro e dipendente, le quali -una volta convenuto il contratto, ad esempio di assunzione- si sottopongono a regole universali. Infatti, il contratto di lavoro dipendente, sia esso di natura pubblica oppure privatistica, prevede, da un lato che l’azienda o l’ente offrano al dipendente un lavoro in una specifica mansione e diano un orario di svolgimento dell’attività affidata da mantenere quotidianamente, a tempo pieno o parziale che sia; dall’altro che il lavoratore si impegni a effettuare il lavoro nell’orario giornaliero previsto e sia puntuale e costante nella sua prestazione.

Accade però che vi siano impedimenti a questa regola e possono essere di due tipi: uno da parte dell’impresa, magari una riduzione del lavoro, una crisi, e in questo caso si può ricorrere agli ammortizzatori sociali, per garantire la continuità del rapporto di lavoro e un certo reddito al dipendente; l’altro da parte del lavoratore, che può ammalarsi, può incorrere in un infortunio, sul lavoro e o in itinere, può avere bisogno di permessi per ragioni personali o familiari. La normativa generale e aziendale per la gestione di questi tre casi è molto chiara e vincolante.

Ecco, quando accadono fenomeni di assenza che, per numerosità e tipologia creano perplessità e dubbi circa la veridicità delle causali, sorge un problema, e si comincia a parlare di assenteismo, fenomeno non raro, anzi, nel mondo del lavoro italiano. Si tratta di una patologia comportamentale, che ha risvolti etici, giuridici, contrattuali, sindacali e di organizzazione del lavoro. Se un’azienda o un ente pubblico si è strutturata con un determinato organico, su quell’organico fa conto ogni giorno, cosicché ogni assenza può creare seri problemi di quantità/ qualità della produzione o dei servizi.

In Italia se ne parla da tempo e non sempre a proposito, anche nei talk televisivi, invalsa cattiva abitudine patria. Nelle aziende più avvedute si è già da tempo avviata una contrattualistica che premia la costanza, la fedeltà, la lealtà all’impresa con sistemi premianti atti a riconoscere questi meriti, ma non basta, perché in molti luoghi di lavoro e, duole dirlo, di più negli impieghi pubblici, vi sono persone che non hanno presente il tema della presenza al lavoro come un dovere vincolante, liberamente assunto all’atto dell’assunzione (cf. Kant: devo perché devo, perché è giusto), e coerente con il principio di lealtà da rispettare verso il datore e i colleghi di lavoro.

Attesto quanto scrivo citando i più recenti dati socio-statistici forniti dall’ INPS: nell’ultimo anno abbiamo avuto un tasso medio ponderato di assenteismo nei settori privati dell’5% contro un tasso medio ponderato di assenteismo nei settori pubblici del 11%; un altro esempio tra i molti dati forniti: sempre nell’ultimo anno abbiamo avuto un tasso medio ponderato di assenteismo nei posti di lavoro pubblici e privati del Nordest del 9%, contro 13% nelle isole.

Come si può commentare questo benchmark? Ipotizzando una maggiore morbilità e incidentalità in certi settori di lavoro e zone dell’Italia, o con altre ragioni di ordine culturale ed etico? Non mi sembra peregrino approfondire la ricerca delle cause originanti questa diversa tipologia di fenomeni e di comportamenti.

Forse il tema è sempre quello educativo: occorre partire dalla scuola dell’obbligo spiegando che l’Italia non è più la nazione unificata dalle truppe di Garibaldi e del sanguinario generale Cialdini, ma una grande nazione moderna che vive in un mondo globalizzato e complesso, e che le aziende non sono più dei moloch ottocenteschi, ma luoghi dove si produce reddito e benessere per molti, se non per tutti. Capire questo è già molto, a partire dal profilo cognitivo ed espressivo. Un esempio: smetterla di chiamare mediaticamente “furbetti” quelli che imbrogliano con i badge della rilevazione presenze, chiamandoli semplicemente stupidi, idioti, masochisti, così come sono da rimuovere i dirigenti che chiudono su questi fenomeni tutti e due gli occhi, e i politici che li supportano. Et de quo satis.

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