Lo scetticismo come ricerca (skèpsis) filosofica. Lo scetticismo attuale
Nel terzo secolo a. C. la scuola platonica dell’Accademia mutò orientamento, sotto la spinta di Arcesilao di Pitane, allievo del matematico Autolico e dell’aristotelico Teofrasto. Arcesilao non scrisse alcunché, come Socrate, perché riteneva che nulla di certo si potesse assolutamente affermare sulla realtà, o molto raramente, e solo per le evidenze oggettive e le certezze soggettive, e che su tutto il resto bisognasse, dopo avere ragionato, sospendere il giudizio (epochè).
Pirrone di Elide (365 – 275 a. C.) continuò sulla strada di Arcesilao, dopo un’esperienza militare che lo segnò profondamente (fu con Alessandro il Macedone fino ai confini dell’India), e non scrisse nulla. Il suo discepolo Timone di Fliunte, il quale invece lasciò dei testi sul maestro, riferisce che forse Pirrone fu influenzato dai sapienti indiani, i gimnosofisti, che se ne stavano nudi a meditare senza esprimere mai giudizi. Pirrone emerge dagli scritti dell’allievo Timone come uno scettico puro, dubbioso anche delle sensazioni (cfr. l’esempio del remo che sott’acqua appare spezzato), sostenitore del silenzio e dell’afasia, cioè di un atteggiamento improntato ad una grande prudenza cognitiva. Forse anche Carneade (quello del quesito di don Abbondio), aderì in qualche modo alla scuola scettica. La filosofia scettica si scompone per quattro secoli in mille rivoli, sopraffatta dal medio-platonismo, dall’aristotelismo e dallo stoicismo, ma riemerge nel II secolo d. C. con Sesto Empirico, il quale, negli Schizzi Pirroniani, polemizza duramente contro tutti i filosofi che egli chiama dogmatici, cioè gli appartenenti a tutte le scuole maggiori (cfr. supra). Diogene Laerzio, nelle Vite dei filosofi, riporta un’influenza stoica in Pirrone, ma Sesto Empirico lo nega: l’epochè (la sospensione del giudizio), e l’acatalepsìa (l’incomprensibilità), sarebbero concetti attribuibili direttamente a Pirrone di Elide. Gli scettici classici, dunque, sostenevano che fosse da credersi eventualmente vero solo ciò che fosse ragionevole (èulogon), e probabile (pìthanon), e che l’unico atteggiamento saggio da tenere fosse quello dell’imperturbabilità (ataraxìa). È il “sapere di non sapere” socratico, riportato alle origini, che troverà un millennio e mezzo dopo un grande mentore nel cardinale Nicola da Cusa, con la sua nozione di docta ignorantia.
Nicola di Autrecourt nasce all’incirca nel 1295-98 (diocesi di Verdun), dopo avere studiato teologia alla Sorbonne di Parigi con Marsilio da Padova, Siger de Courtrai e John da Jandun, è nominato canonico e poi decano nella cattedrale di Metz. Muore nel 1369. Lo cito perché il suo pensiero può essere ascritto allo scetticismo, come autore di alcune opere e corrispondenze (con fra’ Bernardo d’Arezzo francescano), nelle quali sostiene che possa darsi come plausibile il solo principio logico-metafisico di non contraddizione, il quale permette di dedurre la differenza fra due oggetti A e B, negando invece ogni certezza al principio di causalità, e così quasi anticipando la critica humeana. Fu anche processato ad Avignone presso la corte papale dal 1340 al 1346, quando furono condannate 66 sue proposizioni teoretiche. Gli scritti di Autrecort furono bruciati al Pré-aux-Clercs o al Pré-de-Saint-Germain a Parigi, e il teologo fu costretto a ritrattare pubblicamente le proprie posizioni sia ad Avignone, sia all’Università di Parigi.
Michel, Seigneur (conte) de Montaigne nel Périgord, nasce da una famiglia mercantile nobilitata due generazioni prima, verso il 1520, e studia diritto a Tolosa e/o a Parigi. Dopo essersi occupato delle proprietà di famiglia per una ventina d’anni, si ritira “a vita privata” (beato lui), dedicandosi alla meditazione e alla scrittura. I classici latini, Virgilio, Cicerone, Plutarco, Seneca, Lucrezio, lo accompagnano nel lungo viaggio di esplorazione dell’essere umano, delle sue passioni, delle sue virtù, dell’educazione, della sua varia condizione, del dolore, della morte. Negli Essays, Monsieur de Montaigne delinea quello che dovrebbe essere il compito del saggio e del filosofo, la conoscenza di se stesso, dei propri limiti, nella complessità che lo contraddistingue, anche contraddittoriamente. Egli esalta in ogni modo la libertà di pensiero, di ricerca e di azione: “(…) sono così assetato di libertà che mi sentirei a disagio anche se mi venisse vietato l’accesso ad un qualsiasi angolo sperduto dell’India (…)”, afferma in un passo dei Saggi.
David Hume (Edimburgo 1771 – 1776), è solitamente accomunato ad altri due pensatori inglesi, i British Empiricists, Locke e Berkeley, con i quali certamente condivise un’impostazione gnoseologica empirista, ma dai quali va distinto rigorosamente. Infatti, i suoi interessi maggiori furono la filosofia e la letteratura. Nella Ricerca sull’intelletto umano (Londra, 1748) perfezionò la posizione per la quale risultò così importante nella storia del pensiero successivo (Kant). Criticò il principio di causalità, per il quale il fatto B sarebbe causato dal fatto A (cfr. l’esempio del biliardo dove la pallina A colpisce la pallina B e la mette in movimento). Hume sostiene che l’intelletto umano non deve assuefarsi all’abitudine della credenza dell’evidenza (hoc propter hoc, questo a causa di questo) poiché non è detto che in qualche modo tale evidenza possa venire meno (hoc post hoc, questo dopo questo), quantomeno in termini relativi, cioè in qualche zona dello spazio (e del tempo, ndr).
Con Hume inizia con chiarezza il percorso epistemologico che porterà il pensiero filosofico e scientifico contemporaneo alla relatività generale (Einstein), e al principio di indeterminazione (Heisenberg).
Bellissimo.
Quello che oggi preoccupa è però lo scetticismo attuale, egoista, disattento, superficiale (come denunciano in modo diverso Heidegger, con il suo concetto di inautenticità, e Wittgenstein con la sua costante raccomandazione al riconoscimento dell’interlocutore).
Dobbiamo riprendere il cammino del Dialogo per riconoscere nell’Altro un altro Me stesso.
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