Villa Ottelio Savorgnan sul fiume Stella ad Ariis di Rivignano

La serva furlana

Oh bimba, te ti presenterò Amos domattina ch’è sabato. Vedrai che te ti piacerà. È l’uomo giusto per te, c’ha un podere con gli ulivi e la vigna del Chianti su in Poggio al Vento… e pure un piccolo gregge di pecore dell’Appennino per il buon latte e formaggio…”  il colonnello Torquato Vanzi si interruppe all’improvviso, perché vide sul volto della sua giovanissima domestica friulana un moto, prima di sorpresa, poi di stupore e infine di non celata preoccupazione. Luigina capiva che il suo “padrone” voleva maritarla, ma lei aveva appena quattordici anni. Le avevano detto a casa, la mamma e le suore, di stare attenta agli uomini… ché spesso si approfittavano delle ragazze sole, lontane da casa. Con parole pudiche mamma Caterina le aveva raccontato di ragazze che erano state messe incinte e lasciate.

Mah, signor colonnello, non so, sono così giovane…”. Lei si schermiva, un po’ spaventata per quei progetti, che non aveva mai contemplato. Sua sorella più grande di due anni, anche lei a servizio a Torino, usciva con qualche ragazzo, ma non la invitava quasi mai con lei a passeggio.

Luigia, friulana della Bassa, aveva solo quindici anni ed era da quasi tre al servizio del vecchio colonnello sabaudo in pensione. L’avevano mandata lì, ancora bambina, la miseria degli anni ’30 e le suore della Carità di San Vincenzo de’ Paoli, attive un po’ dappertutto, che a Torino avevano la Casa madre d’Italia.

Il colonnello e la giovane friulana andavano ogni estate in Toscana per le vacanze, sulle colline di Poggibonsi, dove l’ufficiale aveva ancora l’ampia casa di famiglia, affacciata su una vallecola amena e boscosa.

Li accoglieva la figlia dell’ufficiale, che era rimasta a vivere in Toscana e preparava ogni settimana il pane senza sale, che condiva con l’olio d’oliva, e lo chiamava fett’unta.

Il buon Chianti delle colline rallegrava i pasti che prendevano, nella buona stagione, sotto il pergolato. Qualche volta l’ufficiale, se aveva qualche ospite di riguardo, stappava con solenne piglio una bottiglia di Brunello, sottolineando l’annata e tutte le caratteristiche del grande vino, come un sommelier. Allora la piccola furlana lo guardava con meraviglia, perché a casa non aveva mai visto vino, salvo qualche bottiglione di Bacò, asprigno e dissetante, oppure di amabile Clinto. Vini di povera gente.

La piccola Luigia  rispondeva rispettosamente agli ordini che il colonnello le impartiva, strutturalmente memore delle antiche campagne d’Africa di fine ‘800, cui aveva partecipato da giovane cadetto sabaudo, Adua, Amba Alagi…, e delle trincee lungo il Carso, il Monte San Michele “bagnato di sangue italiano”, la Bainsizza, il San Gabriele. Aveva ancora negli occhi le cariche dei guerrieri abissini con le lunghe zagaglie… e il ghigno dei soldati ungheresi che venivano all’assalto delle trincee italiane. Scoppi, lamenti, sangue, dappertutto. Compagni mutilati che si lamentavano un poco prima di morire, quasi sommessamente.

Ma a casa non dava ordini perentori, perché chiedeva sempre, se pur con fermezza: “Per piacere, bimba…”.

Ogni tanto, facendosi la barba e curandosi i lunghi mustacchi all’umberta che portava con orgoglio, lo si sentiva canticchiare vecchie canzoni di guerra.

Il colonnello Vanzi non era stato un eroe, ma un onesto ufficiale che non si esaltava per le imprese fatte, né per la guerra. Ne parlava a volte, ma con pudore, e per questo la giovane ragazza friulana lo ascoltava volentieri. Lei aveva sentito parlare tanto della Grande Guerra e dei suoi orrori, dalla mamma che era sfollata a Foggia dopo la rotta di Caporetto, e dal papà che aveva combattuto sul Piave e poi sarebbe andato all’estero.

Altri uomini non erano tornai dalla Grande Guerra e molti nonni si erano persi nelle guerre africane dell’’800. A lei non piaceva la guerra.

Quando tornavano a Torino in Corso Francia alla Luigia piaceva tanto, perché la città era grande, bella e pulita, non come il paese con le strade polverose che diventavano di fango, quando pioveva. Il colonnello la trattava come una figlia piccola, anche se pretendeva da lei che gli stivali di cuoio alla cavallerizza fossero sempre perfettamente lucidati, con il grasso militare che lui le forniva. Se c’era solo un piccolo pulviscolo o un frammento di sporco, la chiamava e la redarguiva con severità, non senza poi rassicurarla.

A lei dopo capitava di fare lunghi pianti, da sola, nella sua stanzetta, ma non lo scriveva a mamma Caterina, per non addolorarla. Ecco, il tacere questi fatti cos’era, si chiedeva, scrupolosa com’era, doveva forse confessarsi alla chiesa di Maria Ausiliatrice, dove andava ogni domenica con sua sorella Teresa. Una volta l’aveva detto al prete salesiano che confessava le tante fanciulle a servizio, ma questi l’aveva consolata dicendole: “Non preoccuparti, ché il Signore conosce i segreti del tuo cuore … tu lo fai per non rattristare la mamma, e allora le tue intenzioni sono buone. Vai in pace”. Allora Luigia sorrideva tra sé e sé, e lavorava più contenta.

Il Po era la sua passeggiata preferita, fino al Castello del Valentino, e poi tornava per la grande piazza San Carlo, e camminava camminava… Le piaceva camminare sotto i grandi portici e guardare dentro i  lussuosi caffè del centro, dove non sarebbe mai entrata.

La prima volta che andò a Torino vi rimase per due anni. Tornò che ne aveva quasi quindici, ma non rimase a casa, perché il colonnello la aspettava.

Gli aveva anche promesso che le avrebbe lasciato in eredità i suoi libri, che poi andarono persi negli imbrogli di un notaio connivente e di parenti avidi.

Pensava Luigia, oramai anziana, quanto sarebbero piaciuti a suo figlio!

Gli anni passavano e lei cresceva, si stava facendo signorina, anche se i suoi pensieri non indugiavano molto su di sé. Lei era fatta così: prima veniva il pensiero per i suoi vecchi e i suoi fratellini, lei era la seconda più grande dopo Teresa. I piccoli, Maria, Antonio e Anna avevano appena sei o sette anni e lei doveva mandare quasi tutti i soldini alla sua mamma, perché il suo papà, che era tornato dall’Argentina, dove era scomparso per quattro o cinque anni, si trovava spesso senza lavoro. Per questo non riusciva a pensare molto a se stessa, e si trascurava, le diceva la sorella maggiore, che invece si curava molto ed era veramente una bella ragazza, mora di carnagione, come una greca, le dicevano i suoi padroni di casa.

Stette, Luigia, a Torino fino a vent’anni fatti, quando nel pieno della guerra tornò a casa da sua madre, che aveva bisogno di aiuto.

Il tempo era passato e lei pensava spesso a quegli anni. Raccontava pure, quando sapeva di trovare ascolto: come sempre i vecchi (e anche i giovani) raccontano se sanno che qualcuno li ascolta con il cuore, altrimenti tacciono.

A casa oramai, a guerra iniziata, c’era molto da lavorare. La sorella grande era fidanzata con un uomo posato molto più grande di lei e sarebbe andata  a vivere in montagna. Il suo destino: uno scenario di bellissime vette e tre figlie dal futuro variegato.

Le due sorelle minori e il fratello avevano una dozzina d’anni e bisognava seguirli dando una mano alla mamma, che si spaccava la schiena nei campi a ore e dalle suore a fare bucati con la liscivia.

Luigia era una ragazza non alta, ma ben tornita e dalla pelle olivastra. Quando usciva per le incombenze familiari era spesso oggetto di attenzione da parte dei ragazzi e anche di uomini fatti di trent’anni.

Si era fatto vicino un giovanotto che aveva sei o sette anni più di lei, di una famiglia conosciuta e vicina. Una famiglia un po’ sgangherata e strana. A lei all’inizio non piaceva, perché spesso aveva qualche sdrucitura nei pantaloni o le toppe sui buchi mal cucite. La povertà della sua famiglia era più dignitosa. Ma quest’uomo, di quasi trent’anni, che aveva fatto la guerra di Grecia, Albania e Jugoslavia e se l’era cavata per un pelo in diverse azioni militari, era discreto e gentile. Una sera aveva raccontato al nonno (certe cose sono solo da uomini), ma Luigia stava origliando il bisbiglio, che in una remota vallata greca, verso sera, nell’estate del ’41, era stato aggredito da un partigiano sbandato (?) con fucile e baionetta che voleva ucciderlo. Scuro, grosso e barbuto e dal forte odore. Aveva dovuto lottare e abbatterlo. Diceva Pietro: “Fino a che non l’ho visto a terra tutto insanguinato non mi sono fermato. Avevo ancora paura che mi uccidesse. Poi è morto lui, e mi è molto dispiaciuto”. Pietro era così, come sarebbe stato sempre, mai una parola di rancore, fatti tanti, parole poche, racconti lunghi, le narrazioni che avrebbero fatto l’imprinting del figlio maggiore e l’avrebbero segnato per il futuro, iracondo e ingenuo. Il figlio della serva furlana.

Luigia a un certo punto, però, aveva quasi ventitre anni e per il tempo era un’età da marito già superata, a un certo punto si decide per il sì. Alla fine, quell’operaio umile e gentile andava bene. Non provava quello che nei film appare come l’amore fatale della vita, ma la vita le aveva insegnato che l’amore è fatto di tante cose, anche della paziente fatica quotidiana per l’altro, di sorrisi imperfetti e un po’ tristi, di silenzi trattenuti e di parole misurate. E di pianti muti nel nascondimento. Quella era gioventù furlana della guerra, viva nell’indigenza di lavoro e di mezzi, pronta a partire per l’emigrazione.

Si sposarono dopo avere fatto una foto di gruppo con la parte di lei. La famiglia di lui non aveva voluto. Lui aveva tre sorelle, due maggiori e una minore. La maggiore, l’’Enrica, era andata a marito da un benestante molto più anziano di lei e avrebbe avuto tre figli; la seconda, Anna, aveva sposato un brav’uomo milanese, l’Aldo Morlacchi, e da loro sarebbe nata Lucilla, futura luminosa donna di teatro; la terza, Germana, si sarebbe dopo alterne vicende italiane, sistemata a Lausanne in Svizzera, per una vita di lavoro e una fine prematura.

Nella foto trovavano posto al centro in piedi il fratellone alto e allegro, Antonio, futuro emigrante in Canada, le sorelle, dalla maggiore Teresa con il marito Pasquale e le prime due figlie, Giuditta e Luciana, alle minori, ancora nubili ma quasi ragazze da marito, la prorompente Maria, e la studiosa e intelligente Anna, gemella di Toni.

In mezzo, in basso i tre vecchi, papà Dante con un sorriso aperto, mamma Caterina (Catine) serissima e dritta, e la zia (sorella di Dante) nubile, Maddalena (Nene).

I due sposi sul lato destro, giovani e sorridenti.

Si sarebbero sposati di lì a poco, nel 1948, con poca festa, ché lui doveva partire subito per un cantiere in alta Carnia.

Il primo bimbo che ebbero non visse, per una difettosità cardiaca che oggi sarebbe quasi uno scherzo. Il secondo visse e crebbe forte e regolare. Venne anche una bimba, più cagionevole.

Il lavoro mancava in quel Friuli degli anni ’50. Si doveva partire. Un’idea stava per andare a buon fine: Marcinelle, ma Pietro fu scartato per una vena varicosa che la commissione medica di Verona aveva giudicato compromettente.

E allora fu cava di pietra in Germania. Per dodici stagioni.

Intanto i due figli della serva furlana crescevano.

Il resto della storia lo lasciamo immaginare al lettore. Molti giorni, settimane, mesi e anni passarono. Le stagioni si alternarono. Vennero freddi inverni e torride estati.

Crebbero i figli, e i figli dei figli, tra alterne vicende.

Il tempo si dipanava nei cuori e la sapienza, nel mistero delle vite e delle loro ragioni sconosciute.

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