Del decreto “Dignità” e storie circostanti, ovvero del perché preferisco Ermal Meta a Salvini
Pare a volte di avere due governi in carica, non si capisce se sopra o sotto il presidente Conte. I due vice parlano a raffica, Salvini con veemenza, Di Maio più pacatamente. Mentre il primo è eroicamente impegnato sui migranti e polemizza con Boeri presidente dell’Inps, cui oppone frecciate da bar all’escussione seria di dati demografico-attuariali, il secondo si propone per dare un colpo al cerchio e uno alla botte sul piano delle regole del lavoro, facendo il giovin sinistro. Chissà cosa pensa suo padre, ex MSI. Bene, il giovine si è convertito.
Ho già scritto altrove che il decreto “dignità” è una pennellata di vernice trasparente che può stupire solo chi non ha pratica di regole del lavoro. Infatti le aziende serie, dopo la canonica protesta di Confindustria, non se ne stanno preoccupando granché. Chi sa ricercare, selezionare e reclutare bene il personale, dico con competenza e professionalità, e sa anche scegliere con attenzione le tipologie contrattuali a disposizione, non può spaventarsi se i contratti a termine vengono un poco ridotti nelle modalità d’uso. In un anno si capisce molto bene se un lavoratore è adatto all’azienda o meno, non occorrono ventiquattro o trentasei mesi, che comunque il Parlamento potrà anche in parte o del tutto ripristinare, né può spaventare la descrizione della motivazione del tempo determinato, lavorando le aziende in tempo reale e quindi sempre bisognose di aggiustamenti.
Dico qui sommessamente a Di Maio, da cui mi distanzia non solo l’anagrafe, ma anche le competenze e l’esperienza in tema (quando lui nasceva io studiavo e praticavo ciò su cui legifera, da anni), che non è stato “licenziato” (nella comune accezione) il Jobs act e che in tema di precarietà, dovrebbe accettare di farsi dare qualche lezione da un punto di vista concettuale, filosofico, socio-politico e giuridico. So che i discorsi sono preparati da altri, ma le fesserie che gli sento proclamare sono davvero ciclopiche.
L’impressione che traggo da queste prime azioni del governo sorto faticosamente dal 4 marzo, sebbene in assenza di palpabili opposizioni (che pena il mio PD), è che i due si stiano intanto spendendo nei pezzi di programma contrattato che non costano, anzi che forse fanno risparmiare, forse per guadagnare tempo per pensare a come dilazionare i tempi per gli azzardati e costosissimi altri piani di intervento come il reddito di cittadinanza, la riforma della legge Fornero e la flat tax.
La scelta di emanare rapidamente il decreto ha un poco sconcertato le parti sociali, che hanno reagito diversamente: i sindacati con qualche favore non privo di pretenziose perplessità; i datori di lavoro contrari, specialmente gli industriali. Finora non si sono espressi più di tanto gli artigiani, ma penso che non siano troppo spaventati. Quando tuona Di Maio non se ne accorge nessuno.
Il fatto è che i criteri seguiti dalle imprese per assumere non corrispondono meccanicisticamente a quello che pensano questi novelli legulei, come scrivo più sopra. Il numero di lavoratori occupati è creato dai volumi di lavoro disponibili, innanzitutto, e poi dall’organizzazione del lavoro, cioè dagli orari e dalle turnistiche, non tanto, o comunque in misura molto minore dai modelli contrattuali. In ogni caso anche modelli contrattuali più rigidi non sono di per sé un impedimento dirimente.
Circa poi il discorso vertenziale ex articolo 18 e dintorni, se resta il vincolo dell’illegittimità per licenziamenti discriminatori di vario genere, non crea gravi problemi, e comunque non maggiori che nel passato più o meno pre Jobs act. Il modello risarcitorio funziona ed è, nei fatti, operativo anche grazie ai sindacati di categoria. Il costo del licenziamento si alza sì, ma su questo non ritengo che il discorso sia concluso. Una sola considerazione di buon senso: non si potrà chiedere alle piccole aziende più di quanto non si chieda attualmente per la risoluzione di un rapporto di lavoro, per ragioni facilmente intuibili da chi ha un po’ di pratica della questione, non certo a teorici astratti alla Fratoianni, per cui questo decreto è solo un ” primo passo”, verso cosa? mi verrebbe da chiedergli, verso la chiusura delle aziende?
Piuttosto occorre pensare a incentivi strutturati per la conferma a tempo indeterminato. Puro buon senso caro avv. prof. dott. Conte, se anche lei vuol metterci il naso, visto che lei è giurista e i suoi azionisti sono politici puri, cioè culturalmente il nulla, in questo caso, ché in altri casi non è stato e non è così.
E’ da chiarire bene, infine, il ruolo e la funzione del lavoro in somministrazione che, così come è stato sperimentato negli ultimi quasi due decenni, ha solo bisogno di po’ di manutenzione.
Salvini dal canto suo non si fa e non ci fa mancare niente in termini di linguaggio iattanza e sicumera. Dopo aver apprezzato il lavoro di Minniti, ha preso una strada non poco contraddittoria, tra i suoi amici del gruppo di Visegrad e i ministri di Austria e Germania: nessuno di questi vuole i migranti e neppure Salvini, nonostante le sue acrobazie verbali. Spero che si calmi nel suo e soprattutto nel nostro interesse.
Criticando i due dioscuri della politica italiana attuale non intendo assolutamente esimermi dal criticare la mia parte politica (più o meno), cioè quella sinistra riformista che da troppo tempo oramai si è praticamente disinteressata dei profondi cambiamenti socio-economici e culturali avvenuti in Italia e nel mondo, privilegiando la dimensione soggettiva del “diritti” (ah quanti danno hanno fatto professoroni e professorini alla Rodotà), al punto da quasi trasformare il PD in un partito radicale di massa, che Tommaso d’Aquino definirebbe come contraddictio in adjecto, una contraddizione radicale, e che Lenin avrebbe giustamente e duramente criticato da un punto di vista di scienza politica pura. Non si può dare infatti un partito radicale di massa, poiché la massa non può essere radicale e neppure radicalizzata, ma solo manipolata (cf. ancora Le Bon, che cito spesso in questo blog), se si fa manipolare, e questo la storia insegna, non accade raramente.
Occuparsi per mesi quasi a tempo pieno e quasi tutto il gruppo dirigente, ad esempio, di unioni gay e di stepchild adoption, ha mostrato al pubblico elettore che l’erede della storicamente massiccia sinistra italiana aveva perso la bussola dietro a questioni sì importanti, ma non più del reddito da lavoro dipendente, dell’equità fiscale, della sanità, della scuola e dell’università.
Questo è successo: un terribile distacco dalla realtà concreta, solida, rotonda e infrangibile come l’essere, direbbe il terribile Parmenide di Elea. Ma i due non sanno neanche chi fosse, o forse Salvini sì come memo liceal classico. Questo è successo: invece i due e i loro seguaci hanno parlato semplice e chiaro, sbagliando millanta volte nei contenuti ma in modo tale da far dire, ad esempio, a mia zia: “non ho capito quello che ha detto ma lo ha detto bene.”
Per tutto ciò, un po’ per celia e un po’ per non morir, tutta la vita Ermal Meta piuttosto che Salvini o Di Maio, mio caro lettor paziente.
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