La quiete del fondo dell’anima, una discesa che è un’ascesa, una fatica che è gioiosa, una strada che è un essere-per-strada, dai tempi in cui l’ominide nostro progenitore assunse la stazione eretta, e così liberò le mani.
Lì, in fondo, oltre i depositi inquieti dell’inconscio, sta (proprio nel senso del verbo greco ùstemi) la luminosa regione dell’essere.
Possente, marmorea, parmenidea.
Quieta, imperturbabile, come la divinità, come l’aria del mattino in una valle montana, come il deserto dove rotolano cespugli innominati, come una remota baia di un’isola oceanica mai calcata da piede umano.
Allora, se il senso di quiete ti prende vengono meno tutti i significati pratici, tutti i meriti, tutte le azioni compiute, anche le più eroiche, tutti gli altruismi, tutte le innumerevoli relazioni e rapporti, tutti gli inter-essi, cioè la totalità del fare e del meritare per avere fatto.
E anche tutti i ringraziamenti ricevuti, tutti gli echi degli incontri e dei sentimenti suscitati, tutto il bailamme compreso nel tempo e nel luogo della vita.
Vengono meno le rivendicazioni e i premi cui si può essere adusi, le frustrazioni e i linguaggi, le interpretazioni e le traduzioni, i tradimenti e le fedeltà.
Vengono meno pure le speranze, ma la speranza resta, vengono meno i progetti e i tempi per realizzarli, decadono le ansie e la raccolta dei frutti maturi non interessa più.
Viene meno l’importanza e la noncuranza, i flash e l’oscurità, l’azione e l’inazione, l’ozio e il negozio, il contratto e la sua violazione.
Viene meno il pensiero e l’evoluzione stessa, nel paradosso di chi ha classificato tutto quello che ha visto nel mondo, unico tassonomista nella classificazione.
Quando si tocca la meraviglia del fondo dell’anima, in un giorno qualsiasi, dottor Darwin, amico mio!
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