Il Silenzio della neve
Siamo malati di chiasso. Fino all’ottundimento. Di questi tempi è una conquista un poco di silenzio quotidiano, a meno che non lo si cerchi e trovi, ed è piacevole ristoro, in alta montagna o in qualche borgata silenziosa, disabitata, o in campagna. Il silenzio sta dove non sta l’uomo. E questo è preoccupante, perchè il silenzio è costitutivo della vita umana. Si tace quando si ascolta, quando si pensa, quando si medita, quando si prega, quando si ama. Si tace poichè in quei casi la parola farebbe male, disturberebbe.
Occorre il silenzio, che è di due tipi. Vi è un silenzio naturale che potremmo definire anche ascetico. E’ il silenzio dell’uomo che si mette in ascolto del pulsare della natura e della propria vitalità, il cuore, il respiro, lo scorrere del paesaggio, il vento. Si tratta di uno stare al mondo rispettoso dell’essere delle cose, che ci precedono e ci circondano, che ci “servono”, ma ci possono anche punire. L’acqua torna sempre dove è già stata, ha la memoria lunga delle alluvioni.
E vi è un silenzio più arduo, quello praticato da mistici come san Giovanni della Croce o santa Teresa d’Avila, l’esikya (preghiera del cuore) dei cristiani ortodossi, la meditazione dei sufi musulmani, il distacco dei monaci buddisti, o la filosofia trascendentale di un Samkàra, maestro hindu dell’ottavo secolo dopo Cristo. E’ il silenzio che talvolta precede, accompagna e segue, lo dice la tradizione, le teofanie (o manifestazioni del divino), come nell’episodio biblico di Mosè e il roveto ardente (Esodo 3, 2-6). Di queste dimensioni parla in modo profondo in un suo libro il padre domenicano Giovanni Cavalcoli. Per chi fosse interessato si tratta de “Il silenzio della parola“, ed. ESD, Bologna.
Poi c’è anche il silenzio pesante dell’incomunicabilità contemporanea, dovuto all’orrendo trambusto del fare, dell’esserci, dell’avere. Un silenzio corrotto e soprattutto carico di potenze negative, come l’ansia, il senso di perdita, una sorta di anossia dello spirito.
Ma noi potremmo considerare il silenzio naturale, quello che permette di elaborare in tempi, anch’essi naturali, le vicende dell’esistenza, il lavoro, i sentimenti, la gioia e la sofferenza. Senza il silenzio naturale, che è un “pieno”, non un vuoto, non possiamo provare stupore per le cose buone, per la bellezza, per la vita stessa. Conosco persone, a cui mi capita talora di rispondere ormai di malagrazia, che quando le incontri ti investono con una sequela di domande, come se gli interessasse granchè delle tue cose, ma non ascoltano neppure la risposta, nè il suo timido accenno, chè già sono con la testa altrove. Dicono: “Come stai?”. Il loro è un “how do you do” anglosassone, che non prevede la risposta. Non c’è in loro l’attenzione per te.
Siamo malati di rumore, bisognerebbe spegnerlo, per quanto si può, isolarsi, regalarsi tempo, osservare pensando, dandosi la ragione delle cose, compassionando un poco se stessi e gli altri, senza superbia.
Il frenetico attivismo comunicativo dei giovani sembra spesso insensato, ma forse lo praticano anche perché gli adulti non li ascoltano, non hanno tempo per loro.
Forse vi è un silenzio di Dio, che sarebbe disgustato del comportamento dell’uomo contemporaneo. Meno male, il silenzio di Dio. Almeno lui. Lui parla quando fai silenzio, e se vuoi ascoltarlo.
Altrimenti sta zitto nel suo cielo lontano eppur vicinissimo …
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