Le persone, tra molte classificazioni binarie di carattere sociologico, si possono anche dividere in due maxi categorie: a) quelli che scrivono i documenti da firmare da parte di altri e b) quelli che firmano i documenti redatti dai primi. Bene. Se lasciassimo solo così le cose, la mia suddivisione sarebbe un atto di pura e vera superbia, ma… se aggiungiamo un’altra doppia ipotesi le cose cambiano. Ecco: a2) vi sono persone che firmano documenti scritti da altri e b2) vi sono anche persone che firmano documenti scritti da altri, però, alla bisogna, sono perfettamente in grado di redigerli da soli, in autonomia…
Ebbene, io appartengo alla categoria B2, avendo incarichi di firma in diversi ambiti dove fungo da presidente, e ciononostante sono in grado di redigere i testi che firmo, siano essi contratti, accordi, verbali, articoli, etc..
Non mi sto vantando, sto solo evidenziando due modi di affrontare la vita e le sue difficoltà, ma ciò si impara solo nella lotta, nella battaglia per trovare una strada propria che sia dignitosa.
Leggevo dell’economista e sociologo francese Piketty, che propone un investimento sul futuro dei giovani, fornendo loro una dote per lo studio, almeno fino a una laurea europea che si stima possa costare, nel quinquennio, almeno 120.000 euri o dollari. Più o meno. A mio parere anche di più, se il ragazzo vuol andare a studiare fuori della propria residenza, caricando costi di vitto, alloggio e viaggi, oppure molto di più se vuole proprio Stanford o Cambridge, ma ciò è concesso solo ai figli di benestanti.
Invece, copiandolo, il segretario attuale del PD, Enrico Letta, propone di dare una dote di 10.000 a ogni diciottenne, finanziandolo con un sovrappiù dell’1% sulle imposte applicata ai grandi patrimoni. Due o tre cose: a) posto che sia eticamente fondata la proposta, in base a un principio di equa distribuzione della ricchezza, e del principio (virtù, in senso classico e teologico) di giustizia, non si capisce bene il progetto, in che cosa consista e dove miri, perché 10.000 euri e basta sono una inezia, una presa in giro; b) la base imponibile dei “ricchi” tassabili è insufficiente per numero; c) la proposta, se non declinata come propone il prof Piketty, resta un puro esercizio demagogico e popolar-populista. Mi dispiace per il buon Letta, che mi pare mostri artigli un pochino spuntati.
Io ho studiato, sempre lavorando e mantenendomi da solo, a Trieste, Padova, Bologna e Roma per conseguire i miei titoli accademici. Mia figlia Beatrice ha studiato e studia ancora a Udine in una Facoltà più che dignitosa a livello italiano, cercando di ottenere livelli di eccellenza. Anche a Udine si possono trovare docenti “normalisti” oppure oxfordiani, senza andare all’estero. Lei non ha preteso ciò che non avrebbe potuto avere dalla famiglia, dignitosamente non benestante, ed è stata contenta del suo percorso liceale classico, che è stato in un liceo friulano eccellente, e di quello accademico, sempre a Udine. Per ora.
Mi pare che questo sia l’atteggiamento giusto per provare a costruirsi un futuro nel quale riuscire, non solo a firmare documenti importanti perché si rivestono ruoli importanti, raggiungibili generalmente solo con lo studio e la fatica diuturna del lavoro, ma anche a conservare il gusto e la capacità per redigerli senza aver bisogno di altri scribi o scrivani. Chi invece può accedere a titoli accademici e a posizioni di rilievo perché il suo proprio status (come insegna Max Weber) è già altolocato (un esempio: nascere da Ranieri di Monaco e Grace Kelly), ben difficilmente maturerà la voglia e lo spirito per riuscire a essere capace di scrivere i testi che firma. Chi glielo fa fare?
Se la storia mi insegna qualcosa, trovo che forse è più facile trovare qualche principe del sangue voglioso di imparare, come fu il povero Rodolfo d’Asburgo, che si tolse la vita con ma contessa Maria Vetsera in quel di Mayerling, piuttosto che in qualche famiglia ricca del giorno d’oggi, perché cencinquant’anni fa, forse, il senso morale del meritarsi una posizione era più sviluppato di oggi. Non è una regola, ma vi sono diffusi esempi, in ambo i sensi.
Nel senso del principe Rodolfo, ad esempio, troviamo l’esperienza di Giovannino Agnelli, mancato a poco più di trent’anni, che mi è stata raccontata da chi gli è stato vicino in Piaggio, e rappresenta un caso virtuoso ed eticamente esemplare di un rampollo di gran famiglia, che voleva vedere la produzione dal vivo (fu per qualche tempo operaio tra gli operai nello storico stabilimento di Pontedera), e sentire con le sue narici l’odore della fabbrica, di olio emulsionato e vedere i vapori con i quali fa i conti la classe operaia (che esiste ancora, cari teorici del “post-tutto”) per quarant’anni e passa per otto ore al giorno (da pochi decenni) da duecento e vent’anni…
Nel mio piccolo, frequentando fabbriche fin da dopo il liceo, perché iniziai a studiare facendo l’operaio, continuo ad avere il piacere della conoscenza diretta del lavoro operaio, visitando i reparti, anche i più ardui, come le celle frigorifere a -24°, meravigliandomi non poco di essere in striminzita compagnia.
E gli operai/ e capiscono bene che il mio stare fra di loro non è una snobistica concessione di uno che “vola alto”, o che lo pensa, ma è la scelta di uno che si sente diversamente operaio, uno come loro.
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