…si scrivono e soprattutto si pubblicano troppi libri mentre si legge poco, pochissimo. Se dovessi dire il titolo di un volumetto un pochino furbicchio, tra i troppi pubblicati in questo periodo, non avrei dubbi a scegliere “Il senso della vita” del teologo Mancuso
Non capisco a che cosa serva la teologia, che è un discorso su Dio e sull’uomo per rapporto a Dio, se alla fine basta più o meno essere gentili, o giù di lì, per dare un senso alla vita. Ad esempio io spesso non sono gentile, e allora mi è negato di dare un senso alla mia vita? Andiamo!
Questo traggo dalla lettura di questo volumetto, che non ho comprato, ma mi è stato prestato. Anche Mancuso, come Saviano, è molto bravo nel fare la vittima, lui delle istituzioni ecclesiastiche, l’altro delle minacce della camorra. Parole dure le mie?
Non credo, perché non bisognerebbe dare spazio a chi approfitta della propria situazione, per costruirsi, in qualche modo condizionando la pubblica amministrazione, una sorta di sinecura a vita. Inviterei queste persone a considerare quanti esseri umani sono veramente in pericolo radicale, quello della vita, e sono lì, nel mondo, senza pretendere nulla da chicchessia. Di queste persone dovrebbero interessarsi i sopra citati, come cerco di fare io nel mio piccolo.
Il fatto è che la cultura sessantottina, oltre ad avere portato nel mondo necessarie modifiche nei rapporti interpersonali, politici e sociali, mettendo in mora le tre famose “p”, quella di figure arroganti consolidatesi nei secoli, il padre, il prete, il professore e il padrone, che hanno storicamente comandato a bacchetta, con arroganza e incrollabile protervia, agli altri, senza essere contrastati in alcun modo, ha indirettamente promosso lo sviluppo della “cultura della pretesa”. Una cultura fasulla e perniciosa, demotivante e ambigua.
Oggi, dopo decenni di dialettica fra diritti e doveri, si parla quasi solamente di diritti. Questo non-va-bene.
Ciò che rimprovero al teologo Mancuso, riferendomi soprattutto a un suo libro precedente, quello con il quale cercò di metter in mora il “dio della Bibbia”, che lui chiama “Deus”, per contrapporlo al “Dio dei vangeli”, quello di Gesù Cristo, è l’assenza di ogni accenno alla necessità di interpretare le Sacre scritture, al fine di dare un senso a testi scritti da tremila a duemila anni fa, che parlavano a popoli quasi del tutto analfabeti, con un linguaggio immaginifico e spesso violento e atroce.
In teologia fondamentale e in esegesi biblica si studiano i quattro sensi che aiutano a comprendere il testo: a) quello letterale che racconta i fatti, o le memorie dei racconti sui fatti, e che narrano i miti primordiali; b) quello allegorico che dà l’indirizzo di fede, per mezzo di passaggi linguistici di carattere retorico, là dove ciò che è scritto significa altro; quello morale, atto a dare un indirizzo virtuoso nei comportamenti; e infine quello anagogico, finalizzato a focalizzare la meta per l’anima spirituale.
Se le cose così stanno, come si fa a considerare “Deus”, il Dio-Signore-Iahwe, “dio-degli-eserciti”, così come citato nella Bibbia in modo letteralista, come se fossimo gli anawim, i poveri del Signore di quei deserti, di quelle pietraie assolate.
Lasciamo fare queste operazioncine a Odifreddi, che ama fare il teologo con una preparazione da professore di matematica. Ancora una volta dico, e ridico, mi dichiaro incolpevolmente ignorante tecnico di molte discipline, la medicina, la fisica, la geologia, ma non mi impanco a parlarne con il sussiego dell’esperto, cosicché invito a fare altrettanto chi non sa alcunché di teologia e filosofia o ne è solo un “orecchiante”. E torno al volumetto mancusiano. Da questo autore “pretenderei” di più, ma non trovo ciò che cerco.
Mi spiego: se devo trovare un senso alla vita, e mi pongo da un punto di vista teologico, cioè comprendente anche la dimensione del divino, non può bastarmi dire che il senso si trova anche solamente nella gentilezza dei tratti relazionali, nel respirare lentamente, nell’imparare a mangiare, nel provare sensazioni, nella lettura, nello studio, nella riflessione, nello scrivere appunti, nell’ascoltare gli altri, nell’essere sinceri, nel distinguere le bugie opportune dalla menzogna, nel diventare consapevole dei sentimenti, nel camminare nella natura, nell’apparecchiare con cura la tavola, nel curare il proprio corpo (di questo specifico elenco ringrazio gli amici Neri e Roberto, che mi hanno fatto avere l’articolo di Paolo D’Angelo pubblicato nei giorni scorsi sul quotidiano “Domani”, articolo che mi ha spinto a cercare il libro). Una buona estrapolazione dal volume citato.
…ma che senso ha un tipo di vita del genere? Abbisogna di Dio? Della teologia? della filosofia’ Non mi pare. Anche se conosco persone che proprio di quell’elenco costituiscono il senso della vita.
Posso dire che tutto ciò è solo banalmente piacevole?
Posso dire che nulla mi dice di ciò che la vita realmente è, con il suo carico di contraddizioni e di dolore, di gioia e di paura, di salute e di malattia…?
Con tutta la sua drammatica insensata sensatezza?
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