Tutti gli esseri umani sono “naturalmente/ necessariamente” interconnessi, e dunque per nulla come soggetti coscienti “auto-nomi-in_sé-sufficienti”, anche se taluni (non molti) possono sopravvivere per un certo tempo nella “wilderness”, ma non per sempre, quasi da anacoreti contemporanei, a imitazione degli antichi Padri del deserto; anche da queste considerazioni consegue che lo smart working – in alcuni specifici casi – è inammissibile, e perfino pericoloso
X Factor e internet, i social e il web, cos’altro dire, se non che sono questi mondi a “cambiare la testa” degli esseri umani attuali, soprattutto dei giovani. Un uso continuo, indefesso e compulsivo di questi “ambienti”, oramai è noto, fa (può fare) danni inenarrabili, di carattere intellettuale, culturale e perfin cognitivo. Si diventa più stupidi e ignoranti, e dunque pericolosi.
Paradossalmente, anche se “sembra” che con questi nuovi media si possa comunicare di più, ed è quantitativamente vero: io stesso uso moltissimo il social che mi è più congeniale per praticità, whattsapp, per aumentare nel tempo la mia capacità di inviare messaggi per organizzare lavoro, appuntamenti, e verifiche su step di studio e lavoro, in realtà si comunica di meno, molto meno! E peggio.
E’ peraltro altrettanto vero che qualitativamente i nuovi media riducono la relazionalità tra le persone, finendo progressivamente, prima con il de-potenziare, e poi con il distruggere la conversazione de visu, che è l’unica modalità vera di relazione.
Lo sappiamo fin dai tempi antichi, quando i grandi sapienti che hanno costruito il sistema di pensiero logico, argomentativo e chiarificativo che ancora noi utilizziamo, con i loro scritti, sia dialogici sia trattatistici, hanno mostrato che ogni scritto (Platone addirittura riteneva che lo scritto fosse fuorviante e falsificatorio rispetto a ciò che voleva-dire ai suoi studenti e/o interlocutori! eppure il grande Ateniese ha comunque scritto decine di dialogi, i cui protagonisti e deuteragonisti sono Socrate, il suo maestro, e gli alunni che aveva nell’Accademia) non riesce, non può dare/ dire ciò-che-il-soggetto desidera comunicare con la voce a un ascoltatore che utilizza i sensi esterni per avere una relazione inter-soggettiva.
Detto altrimenti, la parola pro-ferita è il Lògos, il Verbum, il linguaggio che congiunge due soggetti, tramite la convenzione di un lessico con-diviso, di un gergo, di un sistema espressivo, di una struttura co-costruita nel tempo e nello spazio da Popoli e Nazioni.
Un tanto è inequivocabilmente vero in tutti gli ambienti e ambiti, da quello personal-familiare, a quello dello studio, fino a quello del lavoro. Un esempio piccolo e soggettivo, mio: quest’anno ho avuto quattro tesi di laurea da curare, lavoro non da poco, che prevede relazioni strette con i laureandi. Come ho fatto? Ho iniziato con un incontro (non frettoloso) con lo studente laureando, dove, per prima cosa ho ascoltato le sue intenzioni tematiche e argomentative, e le sue esigenze tempistiche di discussione della tesi, che va proceduralmente concordata anche con la segreteria di Facoltà.
Nel primo incontro tra noi si è concordato su come precedere, a partire da una scaletta dei temi e da una prima bibliografia, che lo studente mi ha inviato via mail; successivamente, dopo avere corretto, implementato e approvato il progetto, ho cominciato a ricevere le prime parti scritte, l’introduzione e i capitoli, che ho letto, corretto, e, se del caso, implementato, sempre nel rispetto delle intenzioni dello studente stesso; durante i mesi spesi nella redazione “mi sono sentito” con lo studente diverse volte al telefono e in una occasione lo ho incontrato in sede accademica; verso la fine del lavoro gli ho proposto di vederci per le ultime considerazioni, prima della conclusione condivisa del testo, della stampa e dell’invio alla segreteria della Facoltà, e infine per verificare la data della pubblica dissertazione.
Ebbene, come si vede, per “produrre” una tesi di laurea, pure avendo utilizzato tutti gli strumenti della comunicazione disponibili: social, mail e telefono, almeno in tre momenti si è convenuto che fosse indispensabile un colloquio di persona vìs à vìs.
Ora, se questa è una procedura efficiente, dentro la quale si sono utilizzati diversi sistemi e strumenti di studio/ lavoro e di comunicazione/ relazione, in un lavoro non-a-tempo-pieno, mi si si spieghi, DIGRAZIA, come si può lavorare in smart working quando si ha un incarico aziendale, soprattutto se è di tipo gestionale (oltre che produttivo, come nel caso della qualifica operaia)? Ad esempio, come si può dirigere un Ufficio delle Risorse Umane da casa? Come? …non vedendo le persone che sono al lavoro, non seguendo i propri collaboratori, non ascoltando e dialogando quotidianamente con i propri capi dal e nel vivo del lavoro aziendale, che è – ontologicamente – fatto di dialoghi, di sguardi e di incontri? Perché è nel quotidiano che accadono le cose, e vanno gestite subito, in tempo reale, con agilità e prontezza. NON SI PUO’ FARE. E, ovviamente, NON SI DEVE!
Negli ambiti umani organizzati per uno scopo, come le aziende, che hanno finalità economiche, il lavoro in generale è strutturato per gruppi, uffici, reparti, aree, distretti, stabilimenti, unità produttive, etc. Di solito è indispensabile lavorare assieme, a volte addirittura fianco a fianco, come nelle linee di produzione classiche e ancora molto presenti nei sistemi produttivi di grande serie, come nel settore alimentare, ad esempio. Di contro, alcuni ruoli, in particolare se l’ambiente circostante è colpito da una malattia pandemica, come nel caso della recente pandemia da Covid-19, possono certamente essere svolti a distanza, da casa. Si può anche ammettere che certe attività di ricerca, approfondimento, studio, progettazione di attività da condividere successivamente, possano essere proficuamente svolta in smart. Io stesso, quando preparo le lezioni del corso accademico, lavoro a casa, dove ho la mia documentazione, i libri, i documenti che mi servono per costruire l’impianto dei contenuti e della didattica. D’accordo, e che tale modalità può essere ammissibile ed efficiente anche per analoghe attività legate al lavoro in azienda.
Ma non di più, basta così. Chi dirige e o aiuta a dirigere persone e gruppi di lavoro deve essere-in-presenza dove si svolge il lavoro, perché il lavoro stesso si svolge in un contesto, un con-tessuto inestricabile di parole, espressioni, sentimenti, emozioni, relazioni micro e macro che non possono essere demandate al o spostate nel lavoro a distanza.
Si tratterebbe di una forma inefficiente di anacoretismo lavoristico, che nulla ha a che vedere con quello storico di un sant’Antonio Abate, che stava nel deserto, solitario, a meditare e a pregare. Faccio notare che nel monachesimo antico (cf. Il Monachesimo bizantino di Giorgio Pasini, edizioni Università Cattolica, Milano 2004), prima che il monaco (da mònos, solo/ solitario) anziano desse il permesso al novizio di cercarsi una grotta per una vita di solitudine e di ascesi, si dava un tempo opportuno, un kairòs, per convincersi e decidere che il giovane era abbastanza maturo per stare-da-solo nel deserto, in mezzo alle locuste e ai serpenti.
Epperò, a un certo punto, il monaco Pacomio si accorse che l’ascesi eremitica non poteva bastare e propose il cenobio, realizzando i primi monasteri, che poi costituirono ispirazione per Basilio di Cesarea in Oriente e Benedetto da Norcia in Occidente. Gli storici si spiegano con dovizia di ragioni e di esempi come il monachesimo cenobitico, cioè dei-monasteri fu il fomite principe dello sviluppo economico e sociale dell’Europa. Verso l’anno 1000 l’Europa era punteggiata da oltre 70.000 monasteri, dove si pregava e si lavorava (l’ora et labora benedettino), e si ponevano le basi per lo sviluppo dell’agricoltura e dell’artigianato che poi avrebbero condotto il Continente verso la modernità. Assieme, non da-soli. Una lezione antica e sempre validissima, o no? Non furono tanto i Comuni e le Signorie medievali a creare la modernità economica, bensì i monasteri collettivi, dove una Regola condivisa metteva in moto tutto, dalle ragioni della convivenza all’acquisizione delle risorse per vivere.
Potrebbe essere utile per chi si occupa di organizzazione e gestione del personale accostarsi alla Santa Regola di Benedetto da Norcia (in parte mutuata dalla Regola di Sant’Agostino, e successivamente seguita anche dagli Ordini mendicanti del Trecento e del Cinquecento, i Domenicani, i Francescani, i Carmelitani…), che (non solo da me) sta venendo utilizzate nella formazione allo sviluppo delle Risorse umane, sia nel mondo accademico sia nel mondo aziendale.
In quelle Regole si constatano le posizioni che possono ispirare e corrispondere alle posizioni e funzioni delle moderne organizzazioni aziendali, come: Abate vs Ceo, Padre guardiano vs Direttore generale, Padre cellerario vs Cfo, Decani vs capiufficio/ reparto/area. Un esempio: san Benedetto riteneva che un fratello anziano, ad esempio un decano non potesse “gestire” direttamente più di dieci confratelli, ed ecco la denominazione di “decano”? Serve altro per capire come possiamo trarre ispirazione per lavorare e far lavorare meglio nelle aziende di oggi anche da queste “lezioni” antiche?
Continuo: anche sotto il profilo caratterologico e comportamentale, la lezione di quei sapienti è perfettamente mutuabile dalle moderne psicologie del lavoro, come si evince dai testi aristotelici e tommasiani; tant’è che il più grande psicologo contemporaneo, Carl G. Jung riteneva che non si potesse ragionevolmente categorizzare i caratteri umani al di là della suddivisione tra introversi ed estroversi…
Vi è poi il tema dell’empatia. Come si può gestire del personale se con la distanza dal lavoro degli altri viene a mancare la componente fondamentale della relazione, cioè l’empatia? Possibile che si possa ritenere uguale un rapporto inter-soggettivo, sia che sia a distanza sia che sia in presenza. Anche mia nonna Catine (mamma di mia mamma) sapeva bene, per intuizione e per esperienza, che sono due situazioni incomparabili, specialmente quando parlava al telefono, una o due volte all’anno, con suo figlio Toni che era emigrato in Canada nella remotissima British Columbia in mezzo ai moose e ai grizzly, e gli diceva “Quando ti potrò vedere e potrò parlare con te sentendo il tuo… odore?” Ebbene sì, “il tuo odore“… Va bene che si trattava di una madre, ma l’empatia non è solo parentale, perché è necessariamente presente, o disgraziatamente assente, in ogni rapporto umano, pena il suo (del rapporto) decadimento e la sua scomparsa totale.
Continuo?
Aggiungo: in questi anni, il tema della solitudine, o, meglio, della solitarietà, che è diversa dalla solitudine, in quanto scelta dal soggetto, è stato trattato specialmente dal cinema americano come un’andata nella selvatichezza, nella wilderness (cf. il film Into the Wild), che non può essere, però, la cifra organizzativa del lavoro! …né della scuola, né della famiglia, né della chiesa, né delle forze armate. Basta così?
Termino con un’ultima riflessione che riguarda la comunicazione e la relazione, con le loro differenze e la loro necessaria integrabilità. La comunicazione è una “tecnicalità” specifica, variamente declinata, al servizio della relazione, non viceversa. Se questo è vero, sillogisticamente si deve ritenere vero quanto affermato circa la centralità della conversazione de visu, che non può essere sostituita – mai – da social di qualsiasi genere e specie.
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