L’Invidia, la Gelosia, il Desiderio, il Destino
La parola invidia deriva dal verbo latino in-vidère, cioè un “vedere contro”, considerare inviso a se stessi l’altro. E’, dunque, propriamente un “diventare ciechi”, incapaci di valutazione oggettiva, razionale.
Vizio capitale, come è stato considerato da Evagrio Pontico (IV-V), da papa san Gregorio Magno (VI-VII), da san Simeone il Nuovo Teologo (X), da Gregorio Palamas (XIV) nell’ambito della dottrina morale classica, propriamente significa malevolenza nei confronti degli altri, a cui, volendo male, si auspica (e talvolta si opera affinché) perdano i beni posseduti. Guardiamoci in giro quanto diffusa è l’invidia! La vediamo trapelare da ogni anfratto vitale: nella politica tra i politici e gli aspiranti tali per questioni di potere e di “spazi vitali”; nella vita sociale dei piccoli paesi (“chissà cosa vuole quello, chissà chi crede di essere”, talora solo perché qualcuno desidera ragionare con il proprio cervello); tra le popolazioni della regione con l’eterna, inutile, oramai penosa diatriba sulle specificità; nelle professioni; tra i parenti più stretti.
La gelosia, invece, è un sentimento umanissimo e profondamente diverso dal vizio dell’invidia. Per alcuni aspetti è un sentimento anche positivo, soprattutto se serve da stimolo alla crescita personale, per imitare i migliori. E’ altamente plausibile anche nei rapporti affettivi maschio-femmina. In qualche modo costituisce la misura di un interesse per l’altra persona, poiché se in amore non vi fosse neppure un pizzico di gelosia vi sarebbe motivo di dubitare dell’amore stesso. Anche in questo ambito, comunque, bisogna tenere conto della misura, poiché un eccesso di gelosia si configurerebbe come forma nevrotica.
Il desiderio è primariamente da de-sidera (lat.: quasi un moto da luogo strumentale, letteralmente significa “dagli astri”). Il desiderio nasce dall’esigenza, tutta umana, di possedere il bene e su ciò essere rassicurati, e così conoscere il proprio futuro. Per questo, fin dall’antichità ha avuto largo seguito il sapere dei sacerdoti astrologhi in Mesopotamia e in Egitto, impegnati a concordare i destini e gli atti umani con i moti degli astri, degli haruspices in Grecia e a Roma, che divinavano il futuro osservando il fumo dei sacrifici e le interiora degli animali sacrificati, degli sciamani e stregoni africani, siberiani e americani, adusi alle droghe e ai vaticini richiesti ai defunti.
Ma il desiderio è anche una passione che si oppone alla passione contraria, che è la paura, la quale determina la fuga del soggetto, prima desiderante. Desiderio e fuga sono contrastanti e nel contempo si attraggono, perché spesso, quando il desiderio-passione viene temperato dalla prudenza, ecco che vi sono momenti di stasi, nei quali la persona non si sa decidere, non ha la forza sufficiente per prendere una strada o l’altra, non riesce a discernere ciò che sia il bene-vero per sé. Questa è la quaestio principalis: sapere ciò che sia il bene-vero per sé. Qui confliggono le varie morali: soprattutto quella delle virtù che individua il bene nel proprio fine, e quella relativistico-utilitarista, cioè della scelta come convenienza hic et nunc. La cesura fondamentale fra le etiche è tra una scelta per un qualcosa che possa rispondere ad una legge universale di giustizia e di realizzazione del fine buono particolare, e un’etica che risponde solo alla convenienza del momento, senza porsi questioni di principio, un’etica dunque che si affida alla cultura prevalente o alla legislazione storicamente data: un’etica di questo genere è la stessa che riteneva normale che gli Spartani operassero una eugenetica verso i fragili.
Destino deriva forse dal greco epistème – ẻpistήmh, scienza, come a significare un qualcosa che è solido, che sta lì (ancora dal greco upò ìsthemi – ủpò ỉ́sqhmi, stare sopra, consistere), e dunque non se ne può prescindere. Vi è quella particella infissa “ste-sti” che dà il senso all’ipotesi che propongo. Il destino lo si ritiene di solito ineluttabile, come se qualcuno avesse pre-scelto per noi il percorso esistenziale e i suoi esiti, e finanche, ab initio, le nostre inclinazioni o vocazioni. Ciò è implausibile, se non sotto due prospettive specifiche: quella della concausalità materiale e quella della prescienza divina.
Per concausalità materiale si intende che tutti gli eventi sono tra loro collegati, per cui talora ci sembra che le cose siano guidate dal caso, mentre invece, se potessimo accedere ad una meta-visione del tutto, ci accorgeremmo che ogni atto, fatto, evento, dipendono da una serie di concause spesso non evidentemente concatenate: ad esempio, sul lavoro scatta una promozione perché il capo precedente, inopinatamente, si dimette.
Circa la prescienza si presuppone il dato della fede in Dio. Come spiega benissimo sant’Agostino nel De libero arbitrio, solo Dio, che ha la visione del tutto, conoscendo tutto, vede anche ciò che per noi uomini appartiene a ciò che ancora non ha (per il momento) l’essere, cioè il futuro.
Per il resto sussiste e funziona il nostro libero arbitrio individuale, che è la radice della responsabilità morale degli atti che compiamo.
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