Villa Ottelio Savorgnan sul fiume Stella ad Ariis di Rivignano

Ricerca e Contemplazione

Viaggiando scrivo e scrivendo viaggio, talora o quasi sempre.

Questa struttura circolare o chiasmica del rapporto tra la scrittura e il viaggio, mi è connaturale quasi come il respiro, come le sistole e le diastole del cuore. Si tratta di metafore che sono come ostensioni del silenzio e dello spazio, come la musica (per il silenzio) e le distanze (per lo spazio). Lo sguardo del viaggiatore è un continuo accorgersi, cioè un correggere (dal latino ad corrigendum) continuamente lo sguardo che contempla e ricerca, ricerca e contempla ciò che transita ai lati e di fronte all’auto in corsa: uomini e donne, sorrisi assorti e pieghe amare sul viso, paesaggi fumiganti e nitidi, case di ricchi e casermoni di poveri, fabbriche, cieli, piogge e nuvole, scorci di costiera e zigzaganti strade di montagna, il vento, il sole, animali, la lontana linea dei monti, l’imbrunire o l’inrosarsi dell’orizzonte. Oppure lo sguardo è rivolto all’interno, cioè verso il “tu” dell'”io”. E lì sosta e ri-esce, oppure riposa nella quiete e nel rallentamento estesico, nel fondo.

La contemplazione è contemplazione dell’uno e del tutto, perché il suo oggetto è sempre e infinitamente polisemico, e viene prima della ricerca. Sia pure un albero o una sorgente, o un cucciolo indifeso d’animale. Si è ricercatori perché si vuole contemplare: ricercatore è uno che fa “come il passero che non trascura alcuna briciola” (Barzaghi, 2006), perché il passero è accurato. Non occorrono finanziamenti governativi per questo tipo di ricerca. Prima della ricerca viene l’interesse per l’oggetto della contemplazione, cioè l’inter-esse, che è un essere-dentro e tenerci molto a questo “dentro”. Se si contempla, si inizia una ricerca con solerzia, cioè con arte e sollecitudine (solerzia significa, dal greco òlos, “tutto” che diventa in latino solus, perché l’aspirata greca diventa una “s” in latino, e ars, is, che produce la radice “erzia”, e dunque tutta-arte). San Tommaso, che era preciso, fece tradurre (dal suo amico, frate Guglielmo di Moerbecke), traslitterando semplicemente il termine greco eustokia (che significa buona acutezza, capacità di puntare, come un cane pointer) dal greco in latino per significare il concetto di solerzia, perché non gli bastava il significato usuale di sollecitudine. Ma occorre anche la memoria, cioè il mandare-a-mente-ciò-che-si-contempla-con-solerzia, il risultato della ricerca. E la memoria è la base dell’intelligenza e del racconto. Memoria è anche misura (dal greco mnemosùne, dove una semplice metatesi sposta la vocale iniziale “e(psilon)” davanti alla “n(i)”, e produce anche la radice di mensura, in latino misura), ed è un luogo dove si trovano le cose viste e imparate, o dove si inventano. Ma inventare (dal latino invenìre) significa semplicemente trovare. Non mi cercheresti se non mi avessi già trovato, diceva Agostino, riferendosi all’Eterno che dialoga con l’uomo.

E poi c’è il raccontare, che è un ricordare (da cor, cordis, cuore, riportare alla coscienza del cuore) e un cantare commosso ciò che è stato rammemorato dalla mens (mente, mensura, cioè misura) e ricordato nel cuore. Il racconto è un canto come la fiaba, che è anche esempio (exemplum), quando non è memoria raccontata con canto commosso.

La contemplazione allora diventa una ricerca, e la ricerca si fa memoria, e la memoria produce un racconto che vive per sempre.

Come quando a Vermicino, 1981, giugno, morì nel pozzo scavato nella terra fangosa il piccolo Alfredino Rampi, e Angelo tentò inutilmente di salvarlo scendendo fino a lui per un buco parallelo. E il presidente Pertini impietrito, accanto. Tutto ci ricordiamo, i nomi, le circostanze, le date.

È l’infinita pietas che emerge per l’uomo e per il suo destino, quando contempliamo i volti dei bambini e dei vecchi, specie di quelli che non hanno di che vivere, silenziosi, e siamo resi edotti dell’infinita ingiustizia che persiste, sulla quale molti si riposano e si arricchiscono, e sappiamo che non sono  possibili scorciatoie, né rivoluzioni palingenetiche. Già far contemplare questo dolore-che-insegna ai ragazzi e ai giovani di oggi, può essere come un toglimento salvifico dalla banalità della non-conoscenza del dis-inter-esse, e può spingerli alla contemplazione, e poi alla ricerca e all’azione.

Jung chiama “ombra” la zona oscura, indicibile, che si trova, anzi talvolta si fa trovare, dentro di noi. L’inconscio, conosciuto anche dagli antichi Magistri della filosofia classica (vedi l’interiore homine di Agostino), è una condizione dell’abisso con cui si dialoga, volenti o nolenti, che talora emerge dai sogni, dai lapsus, e si concreta, ospite invisibile, lacerto disgregato dalla notte e ristrutturato nel nostro sé evidente, nel nostro modo di essere, quello esterno, quello che appare, e che è in molti modi. L’ombra di cui si tratta nulla ha a che vedere con il colonnello Kurtz del romanzo, Marlon Brando e il suo doppio (La linea d’ombra di Conrad, e Apocalipse now di Coppola). O forse, perché no, qualcosa, e di più nei laberinti (come dice Bernardino Ochino nelle sue omelie sull’humano possibile libero arbitrio). L’uomo della post-modernità è come avesse perso la propria ombra, quella del mito della caverna di Platone, che fa capire come gli oggetti reali siano almeno lo specchio delle idee eterne. Non vi è più neanche l’ombra dell’uomo nella realtà virtuale, come se egli avesse perduto la propria consistenza ontologica, lo spessore profondo che lo distingue dal nulla. “Egli ha smarrito la sua ombra” (Baudrillard, 1999).  

La zona d’ombra non è neppure il confine con la “zona morta” di Stephen King e David Cronenberg, il quinto grado di coma, che prelude alla tras-formazione o al rinvenimento di una vita in bilico: la zona d’ombra convive con noi, in ogni momento. Dà alimento alle passioni e turba la ragione, restando sempre in parte inesplorabile.

 

A volte emerge con più forza la zona d’ombra, e allora ci conosciamo meglio, come è successo anche a me, quando ho sentito raccontare con passione e sensus culpae (dell’esse/re nato) da J. Rheinwald, che ho conosciuto durante un viaggio lontano (da dove?) nel tempo e nello spazio.

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