Villa Ottelio Savorgnan sul fiume Stella ad Ariis di Rivignano

Sulle tracce di Gödel, o di come provare a “matematizzare” il seguente avverbio di modo: “prevalentemente”

As the foremost logician of the 20th century, Kurt Gödel is well known for his incompleteness theorems and contributions to set theory, the publications of which changed the course of mathematics, logic and computer science. When he was awarded the Albert Einstein Prize to recognise these achievements in 1951, the mathematician John von Neumann gave a speech in which he described Gödel’s achievements in logic and mathematics as so momentous that they will ‘remain visible far in space and time’. By contrast, his philosophical and religious views remain all but hidden from view. Gödel was private about these, publishing nothing on this subject during his lifetime. And while scholars have grappled with his ontological proof of God’s existence, which he circulated among friends towards the end of his life, other tenets of his belief system have received no significant discussion. One of these is Gödel’s belief that we survive death.”

Inizio con questa citazione sul pensiero del matematico tedesco, teorico della dottrina dell’incompletezza matematica, per cui lo si può ricordare come pensatore e filosofo attento a ciò che le matematiche non possono descrivere, pensoso su ciò che loro sfugge…

Il grande Kurt credeva che non tutto ciò che è reale fosse “matematizzabile” (magari anche contra Galileum), a partire dalla frase stessa “non tutto è matematizzabile“, vale dire trasformabile in un oggetto matematico.

(Kurt Gödel)

Credendo io, nel mio piccolo, assieme a molto altri, che la matematica, la màthesis greca, sia il sapere più prossimo alla filosofia teoretica, mi sono mosso per creare un esercizio, quello di trasformare in un numero da 0 a 100 un avverbio di modo, che sto utilizzando molto, in questo periodo, per rispondere alla domanda (essenzialmente retorica) “come stai?” che mi sta venendo rivolta spessissimo: l’avverbio “prevalentemente”.

Infatti, chi ti conosce o ha un minimo di interesse per te come essere umano (amico, conoscente, collega, amante?), quando ti incontra dopo un certo periodo, solitamente ti chiede “come stai?”. E tu rispondi procurando di non annoiare il tuo interlocutore, o all’inglese dicendo semplicemente “bene, grazie, e tu?”, attendendoti una analoga espressione, per far finire lì il convenevole, oppure ti soffermi brevemente ad illustrare le tue condizioni, soprattutto fisiche, specialmente, quando chi ti parla conosce un tuo abbastanza recente problema, una malattia, un percorso terapeutico, o qualcosa del genere.

Epperò agisci sempre cercando di non stancare l’altro con troppe parole, o dettagli, che in tema sono generalmente non proprio gradevoli, perché magari evocativi di altrettanto o di qualcosa di analogo, in negativo.

Allora la chiudi rapidamente. Bene.

Vivendo io una vita di molte occasioni di incontro e quindi di altrettante domande, ho cercato di individuare una risposta abbastanza standard, che da un lato mi permetta di essere breve, e dall’altro di non mostrarmi annoiato o poco propenso a considerare la veridicità dell’interesse del mio interlocutore nei miei confronti. Anche perché su questo argomento, cioè circa il reale interesse dell’altro, sono sempre stato un po’ scettico, e tendo a diventarlo sempre più, ai limiti di un cinismo ragionato.

Ecco allora che ho individuato nell’avverbio di modo “prevalentemente” la risposta più adatta a rispondere a chi ti chiede come stai: “prevalentemente bene”, rispondo, e solitamente tutto finisce lì con un sorriso, e si passa all’argomento che eventualmente è di comune interesse.

Da un po’ di tempo, però, notando che solitamente questa risposta lascia (più o meno) quasi tutti soddisfatti, mi è venuto in mente di approfittare di questa mia risposta stereotipata per effettuare una ricerca, possiamo dire di tipo sociologico-semantico-statistico.

Sto provando, dunque, a chiedere al mio interlocutore, un po’ per celia e un po’ per creare rapport, di trasformare l’avverbio in un numero da 0 a 100.

E qui sto scoprendo qualcosa, a mio avviso, di molto interessante: le risposte sono molto varie e vanno da 51 a 80. A quel punto, se già non conosco il titolo di studio del mio interlocutore, lo richiedo gentilmente.

Dopo alcuni mesi di questo esercizio sto facendo una scoperta a mio parere per nulla banale: quasi (nel senso di quasi tutti) i laureati in ingegneria (una trentina le persone interpellate) mi hanno risposto… 51, con una eccezione. L’unico laureato in ingegneria che mi ha risposto diversamente, è stato un signore che, prima di iscriversi alla prestigiosa facoltà tecnica, aveva fatto il liceo classico; ebbene, questo signore mi ha risposto da 65 a 75. Bingo! ho detto.

Provo a raccontare brevemente il mio esercizio con un esempio. Mi trovo in un ambiente dove vi sono tre ingegneri e un non-ingegnere (che può essere un economista, un ragioniere, un giurista o uno psicologo, a mero titolo di esempio). Gli chiedo di condividere cinque minuti di ricreazione.

Propongo di valutare numeristicamente l’avverbio “prevalentemente” scrivendo il numero scelto su un foglio bianco, senza che ciascuno mostri il proprio numero agli altri. Ritiro i quattro foglietti e trovo che tre di essi, quelli degli ingegneri, riportano il numero 51, mentre il biglietto del non-ingegnere (un laureato in economia) ha scritto il numero 66.

Ne parlo con loro, e uno degli ingegneri, eletto portavoce dagli altri due, mi dice che il 51 è comunque una cifra che dice “maggioranza” sul numero 100, e dunque il “prevalentemente” è rappresentato in modo adeguato con il numero 51; il quarto partecipante, il non-ingegnere, invece, mi dice che ha scritto il numero 66, poiché l’avverbio di modo gli fa percepire una sorta di “aura” di maggioranza superiore al 51, quindi più che assoluta (in un’altra occasione un giurista aveva pure lui scelto il numero 66 spiegandomi poi che per lui era particolarmente congrua la percentuale (%) che nelle normative pubbliche rappresenta la maggioranza qualificata, come nelle votazioni istituzionali).

Si noti, una sorta di “aura” scrivo sopra, come se vi fossero elementi o misure non-rappresentabili con la mera grandezza del numero.

Cosa si può trarre da questo esercizio (neuro)-psico-sociologico-culturale? Nulla, o fors’anche qualcosa sulle mentalità che si consolidano dopo avere seguito un determinato tipo di studi, per cui mi pare che l’idealtipo “ingegnere” tenda a rappresentare il significato semanticamente dato dell’avverbio “prevalentemente” con il numero 51, come “maggioranza semplice”, come recita la normativa istituzionale, mentre gli altri idealtipi tendono a indicare numeri superiori, perché, a mia domanda rispondono, “che gli sembra più appropriato“?

Si può dunque dire che il numero, così come è, non può rappresentare tutto il campo semantico-culturale del suo significato matematico, perché esso deborda dalla quantità e dal significato/ accezione condivisa del numero, descrivendo molto di più (e forse in modo migliore) la realtà effettuale?

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