Villa Ottelio Savorgnan sul fiume Stella ad Ariis di Rivignano

Una domanda, compagno Fratojanni: se l’onorevole Salis, sfondando la porta, venisse a impadronirsi a nome di terzi bisognosi, di casa sua, onorevole deputato, lei cosa direbbe, cosa farebbe? Ebbene, le case milanesi di cui si parla appartengono a privati cittadini… stiamo forse abolendo la proprietà privata che, lo so dalla teologia e dalla filosofia morale classiche, non è un “assoluto” etico-giuridico (io lo saprei argomentare dialetticamente… e lei? e l’onorevole Salis? Dubito fortemente, ascoltandovi), ma comunque non può essere messa in discussione da un’iniziativa privata come è un’occupazione abusiva. O no? E, guardi, io ho una sensibilità non inferiore alla sua per i senza tetto, stia tranquillo. Potrei aggiungere qualcosa di biografico, ma non lo faccio

Articolo 42 della Costituzione della Repubblica Italiana

La proprietà è pubblica o privata. I beni economici appartengono allo Stato, ad enti o a privati.

(Tommaso d’Aquino)

La proprietà privata è riconosciuta e garantita dalla legge, che ne determina i modi di acquisto, di godimento e i limiti allo scopo di assicurarne la funzione sociale e di renderla accessibile a tutti [cfr. artt. 44, 47 c. 2.

La proprietà privata può essere, nei casi preveduti dalla legge, e salvo indennizzo, espropriata per motivi d’interesse generale.

La legge stabilisce le norme ed i limiti della successione legittima e testamentaria e i diritti dello Stato sulle eredità.

Non mi pare che l’agire citato nel titolo sia rispettoso della norma costituzionale. Nella nostra Costituzione la proprietà privata è tale, e comunque in modo non assoluto, se e solo se si rilevino motivi di interesse generale, come nel caso dell’esigenza di costruire una infrastruttura necessaria alla organizzazione sociale, logistica o della sicurezza: un ponte, una briglia in montagna, una vasca di laminazione di acque, oppure una … Non può, pertanto, un privato cittadino come Salis arrogarsi il diritto di sfondare una porta per farvi entrare terzi, i cui problemi abitativi immediati devono essere risolti dalla Stoato e/o dalle iniziative del Terzo settore, attuando la sussidiarietà, che è componente fondamentale della solidarietà.

Caro compagno Fratojanni, non si danno reati “buoni” e reati “cattivi”, poiché sussistono solo reati tout court, per la sanzione dei quali vi possono essere, nei vari gradi di giudizio, solo attenuanti generiche o specifiche. Né è lecito pensare che un fine nobile giustifichi i mezzi, in una vulgata falsificatoria del machiavellismo (il Segretario fiorentino non scrisse mai in alcun testo quanto è stato erroneamente propalato per secoli!).

Casomai, se a Milano c’è il problema della casa si conduca una battaglia politica, che per sua natura è paziente…

Negli anni ’60 e ’70 si urlavano slogan del tipo “la proprietà è un furto e a ciascuno deve essere dato secondo i propri bisogni”. E’ moralmente certa la seconda affermazione che si basa su un’antropologia sana, ma la prima è un’affermazione di pura convenienza militante, perché apodittica e falsa da un punto di vista logico-semantico, nonché giuridico.

Consultiamo anche l’etica classica.

Non è affatto inattuale riflettere sui contenuti di questi slogan che mantengono intatto il loro valore utopico di una diversa giustizia sociale; può essere interessante assumere una prospettiva storica e rintracciare così sviluppi del problema filosofico di fondo – quale sia il fondamento della proprietà privata – nei dibattiti universitari a partire da XIII secolo.

La stretta connessione fra speculazione razionale e dato della fede colora in modo caratteristico il pensiero medievale, e questo dato trova una conferma di particolare evidenza nella trattazione della questione messa qui a tema. Il motivo è semplice: le Scritture descrivono lo stato edenico come uno stato in cui la bontà dell’uomo rende superfluo distinguere la proprietà dei beni. Senza bisogna di norme positive, gli uomini per natura sarebbero disposti a fare un uso moderato delle risorse, in modo da garantirne la disponibilità anche ai propri simili. È il peccato di Adamo che muta la natura umana istituita in una natura umana decaduta, dove le capacità razionali e morali dell’uomo sono compromesse da una colpa originaria che si propaga in tutto il genere umano sotto forma di peccato originale.

Parrebbe che nulla possa essere più inattuale, in sede di filosofia politica, di queste considerazioni di teologia rivelata. Eppure, fu proprio la riflessione sul passaggio dallo stato edenico allo stato postlapsario (dopo la caduta del peccato originale) a indurre i Maestri di teologia parigini ad affrontare il tema della proprietà poiché, come recita lo stesso Decreto di Graziano, «per diritto divino tutte le cose sono comuni». Quello di proprietà non è un diritto istituito da Dio con la legge naturale nota a tutti gli uomini, ma è un diritto che si va ad aggiungere al diritto naturale, e che perciò richiede un fondamento giuridico. Come osserva Tommaso d’Aquino, “se vedo un campo non ne scorgo il padrone“.

Eppure proprio Tommaso d’Aquino sviluppa una dottrina che fonda la proprietà privata sulla stessa legge di natura che, abbiamo visto, di per sé non la contempla. Tommaso interpreta l’assenza di una esplicita norma naturale che attribuisca i beni indivisi a un particolare proprietario come una lacuna del diritto naturale, giustificata dalla perfezione dello stato edenico. Il peccato dell’uomo comporta non solamente, come si è detto, l’indebolimento delle capacità umane, che richiedono perciò un supplemento normativo; ma anche una pena per la colpa connessa. Sono questi i fondamenti che giustificano un ampliamento per addizione del diritto naturale originario, al quale si aggiunge un diritto naturale secondario la cui funzione è dunque normare il comportamento dell’uomo decaduto. A questo scopo sono introdotte nuove leggi di natura per frenare la concupiscenza umana: la proprietà privata dei beni, il dominio dell’uomo sull’uomo (la schiavitù, che per Tommaso è stata «introdotta come pena per il peccato»), l’uso dei vestiti. Tutto ciò ben si colloca nella concezione del diritto tommasiano, per il quale una legge ingiusta non è una legge, e ogni norma per avere vigore deve essere – almeno nei limiti della possibilità della ragione umana – dedotta dalle leggi di natura, espressione a loro volta della legge eterna della ragione divina. Di conseguenza, la proprietà privata, norma fondante della comunità politica, deve essere collocata al più alto livello possibile del diritto, il diritto naturale secondario appunto, poiché nessuna delle norme di tale diritto possono essere modificate dal diritto umano che è gerarchicamente inferiore, e dunque normativamente più debole, del diritto naturale.

Se da un lato garantisce la rettitudine delle leggi, lo stretto collegamento fra etica e diritto porta nel pensiero di Tommaso a una concezione verticale del diritto, dove ogni norma riceve vigore dalla propria collocazione all’interno della gerarchia discendente legge eterna-legge naturale istituita-legge naturale allargata-legge umana. Collocati nella sfera del diritto naturale, la proprietà, la schiavitù, e anche i vestiti, apparteranno per sempre al genere umano.

I decenni successivi alla morte di Tommaso – ovvero l’ultimo quarto del XIII secolo – portano un deciso cambiamento di sensibilità verso molti aspetti della normativa degli scambi economici. Il ripensamento sull’utilità sociale dell’attività di compravendita di merci e di prestazioni d’opera, strutturata sul modello teologico della caritas, introduce forti mutamenti sulla valutazione dei beni.

È in questa prospettiva del tutto nuova che si muove il pensiero di Giovanni Duns Scoto. Non è una legge di natura quella che lega il proprietario al bene posseduto, afferma Scoto, bensì un mero diritto positivo, stabilito dalla comunità sociale tramite la libera adesione a una norma resasi necessaria dal decadimento della specie umana. Se dunque la radice teologica resta immutata, e basata sull’utopia a rovescio dello stato edenico, cambia radicalmente il fondamento dei nuovi diritti soggettivi di possesso. Si tratta, agli occhi di Scoto, di un patto fra uguali – o fra coloro che legalmente rappresentano la comunità che a essi ha delegato il potere di legiferare – che non istituisce un diritto assoluto sulle cose, irrevocabile e intangibile. La norma è, almeno potenzialmente, revocabile perché il suo vigore riposa nel consenso di chi contrae un accordo, diremmo, orizzontale fra diversi soggetti portatori di diritti che limitano alcuni di essi per un riconosciuto bene comune.

La forza delle leggi che regolano il corpo sociale non è nel loro contenuto, ma nella volontarietà della loro retta istituzione. La proprietà ha un fondamento giuridico perché i patti vanno rispettati, indipendentemente dalla materia da essi normata. La proprietà privata intesa come norma liberamente istituita per l’accordo dei contraenti non ha, per altro, la funzione di garantire il possesso del ricco, ma di tutelare con giustizia il possesso del povero, per evitare che «il malvagio e bramoso si appropri delle cose ben oltre a quelle che gli sono necessarie anche usando violenza agli altri».

Questa nuova concezione del diritto, scisso dal valore etico della norma e basato sulla tenuta giuridica del patto, porta a conseguenze che per lo stesso Scoto sono eticamente discutibili, ma necessarie. A differenza di Tommaso che la fa rientrare nel diritto naturale, Scoto giudica la servitù contro natura, e per questo inaccettabile. Però, nel caso del servaggio volontario (pratica frequente nella società feudale basata su rapporti individuali di tutela e di servizi), la servitù, per quanto ‘insensata’, acquista vigore dalla accettazione consapevole dell’asservimento da parte del servo: nella concezione di Scoto, i diritti che esulano dalla legge di natura non hanno una gerarchia assoluta. Il servo però, con il contratto che sottoscrive, non concede il possesso della sua persona al signore, ma solamente una determinata prestazione d’opera. Per questo, in accordo con Scoto e con la realtà sociale del suo tempo, al di là degli obblighi lavorativi che devono essere garantiti, il servo può compiere qualunque attività gli sia possibile – come acquistare beni personali o contrarre matrimonio.

La modernità di questa concezione è da vedersi propriamente nell’ampliamento della concezione dei beni posseduti da ogni soggetto: fra di essi trova ora posto quello che noi riconosciamo come un bene prezioso, ma che la riflessione scolastica non aveva ancora colto come tale: il tempo umano, l’elemento fondativo dei diritti soggettivi di cui ciascuno può disporre a proprio modo, conservandolo per le proprie attività o cedendolo ad altri tramite i contratti che è in suo potere stipulare. La servitù, non più basata su differenze di natura o sull’espiazione di colpe adamitiche, in Scoto diviene quanto di più simile a ciò che oggi intendiamo come contratto di prestazione d’opera.

Il comunismo teorico applicato nella storia ha poi confermato l’erroneità dell’abolizione della proprietà privata e favore di una collettiva che poi, nei fatti, è decaduta nella proprietà di élites di partito (Unione Sovietica e Cina Popolare) o di dittatori sanguinari (Cambogia, Corea del Nord).

Pertanto, cari Fratojanni e Salis datevi una regolata, magari studiando un pochino.

A. J. Lisska, Aquinasʼs theory of natural law: an analytic reconstruction, Clarendon Press, Oxford 1996.

G. Stratenwerth, Die Naturrechtslehre des Johannes Duns Scotus,Vandenhoeck und Ruprecht, Göttingen 1951.

F. Bottin, Giovanni Duns Scoto sull’origine della proprietà, «Rivista di Storia della Filosofia» (52) 1997, pp. 47-59.

G. Alliney, I presupposti teorici della servitù nella riflessione teologica di Tommaso d’Aquino e di Giovanni Duns Scoto, in «I Francescani e la Politica (secc. XIII-XVII)», Officina di Studi Medievali, Palermo 2007, pp. 111-129.

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