Se c’è un sentimento sicuramente più inutile, stupido e dannoso rispetto a tutti gli altri, questo è l’invidia, che viene classicamente annoverata tra i vizi capitali dai filosofi maggiori, come Aristotele, sant’Agostino e Tommaso d’Aquino, fino a Kant e oltre, e anche da mia nonna Caterina (Catine, in friulano), che non era una filosofa, ma una donna “sapiente”, cioè “sapida”, non insipida come la maggior parte dei politici odierni
Vi siete mai chiesti, cari lettori, perché qualche volta se un vostro conoscente, e financo un amico, e perfino una persona cui volete sinceramente bene (e questo pare assurdo), ha successo in qualche ambito della vita umana, magari sotto il profilo lavorativo, o dei guadagni, o del risultato sportivo, o del prestigio sociale, o del potere acquisito in politica o in una struttura economica come un’azienda, si può provare un sottile, anche se non esplicitabile, senso di fastidio?
Perfino se si tratta di un amico o di una persona a voi molto vicina. Eppure capita.
Una ricerca americana attesta che tendiamo a essere più felici in una società dove gli altri sono meno apprezzati e valutati di noi. In altre parole non ci piace assistere al successo altrui.
La nostra “felicità”, termine che a me piace pochissimo perché irrealistico e ingannevole, è spesso una “felicità relativa”, perché legata a una comparazione con “altre felicità”, con altre vite… e poi, come ci spiegano i neurologi, non siamo neanche “progettati” per essere sempre felici, tuttalpiù gioiosi, direi, perché il cervello non sopporterebbe un continuo scatenarsi delle endorfine, della dopamina, della serotonina e quindi dell’ormone cortisolo.
In pratica, di converso, tendiamo a godere dell’insuccesso altrui. Mi sto chiedendo se anche a me capita altrettanto. No, perché lo trovo inutilmente e faticosamente stupido, oltre che assurdo sotto il profilo morale. Conosco, invece, molte persone che sono invidiose se racconti qualcosa di positivo che ti riguarda. Ti sorridono ma i tratti del volto sono tirati, tradendo così un’insincerità di fondo.
Gli antichi moralisti, da Aristotele in poi, hanno individuato questo sentimento come vizio inserito nell’elenco dei sentimenti (o passioni) negative sotto il profilo morale, come la superbia, l’avarizia, la gola, la lussuria, l’ira e l’accidia. Per la precisione l’invidia è considerata il secondo peggior vizio morale, appena dopo la superbia, che genera tutti gli altri come sentimento di autovalutazione assoluta del sé, per cui il superbo ritiene che gli sia concesso qualsiasi pensiero e azione, mentre agli altri no. Ecco serviti tutti gli altri vizi.
Un aspetto rilevante di questo vizio è la sua stupidità, in quanto vive del confronto con gli altri, godendo dell’insuccesso degli altri, ma senza che questo insuccesso ti porti alcun giovamento, e dunque è, non solo stupido, ma anche inutile e insensato.
Alcuni psicologi ritengono che l’invidia serva ad aguzzare l’ingegno, ma mi sembra che, dall’alto della loro spesso crassa ignoranza filosofico-morale, la confondano con la gelosia sana del fratello minore che vuole imitare il fratello maggiore nello sport o nello studio, al fine di eccellere quanto lui. Non confondiamo la gelosia con l’invidia, digrazia!
È pericoloso essere felici. Questo il titolo dell’ultimo volume di Dino Baldi per Quodlibet (pp. 264, euro 18). La questione proviene da un’epoca in cui non viviamo più. Dal tempo in cui si credeva negli dèi, e in cui gli dèi, per riguardo all’essere umano, ancora decidevano di invidiarlo. Esisteva un’ingiustizia più giusta, volta a ristabilire l’ordine nella relazione tra esseri umani e comunità, tra cittadini e divinità. «Niente di troppo» era scolpito sul tempio di Apollo, il dio che aveva scorticato Marsia e sterminato i dodici figli di Niobe, per lungo tempo invidiati dalla madre Leto. Gli dèi, allora, invidiavano gli esseri umani, desideravano la loro felicità. Leopardi, nello Zibaldone, aveva ritrovato l’origine di tale invidia nei culti orientali eppure, nulla prova «che ci troviamo in una zona ascrivibile al pensiero primitivo». Lo phthonos theòn, l’invidia degli dèi che Dino Baldi racconta è l’immagine di una presenza, il «sospetto che viviamo sotto l’opaca sorveglianza di forze soprannaturali pronte a intervenire in ogni momento per sconvolgere le nostre vite», il presupposto di un ordine di restituzione del fato, l’ammissione di una debolezza originariamente divina.
Alla base di un simile pensiero rimane la traccia di una sorta di indiscutibile giustizia. Aristotele l’ha definita medietà, e in fondo altro non è che un principio d’ordine regolativo per una polis in cui la soggettività è riconosciuta a livello di un intelletto pubblico. Oggi, questa forma di medietà sembra confusa, trasferita su un piano sociale che ha incautamente rimandato il divino a un momento secondario. Quanto ci viene descritta è allora l’immagine di una società in cui esiste e persiste una morale, dove tutta l’umanità pare velata in quell’invidia che persino gli dèi, in Grecia, devono avere posseduto.
Uno dei più dannosi vizi, anche secondo Tommaso d’Aquino è l’invidia, poiché contrasta con la virtù della carità, che dovrebbe portare le persone a gioire del bene degli altri. Inoltre, può condurre a comportamenti dannosi, come il risentimento, la rivalità e il desiderio di vendetta. Tommaso d’Aquino metteva in guardia contro l’invidia, poiché può corrompere il cuore e ostacolare la crescita spirituale.
Aggiungerei anche che il “tipo invidioso” spesso è anche narcisista, come mi suggerisce il caro amico Paolo. Infatti, il narcisismo si accompagna un po’ alla conseguente superbia che fa credere di essere chissà chi, e un po’ all’invidia, che non sopporta che gli altri siano “qualcosa”.
Mia nonna materna Caterina, siore Catine, mi raccontava di come non provasse nessuna invidia per la signora contessa da cui era a servizio, e che la obbediva senza nessun sentimento di inferiorità, perché, mi diceva “davanti a Nostro Signore siamo tutti uguali“, e per attestare ciò, mi specificava che non cedeva il passo alla contessa in chiesa quando la precedeva per andare dal sacerdote a prendere l’Eucarestia.
Direi che il provare o non provare invidia per una persona possa essere un misuratore sincero dell’affetto che si ha per la persona stessa. Se si dice di amare una persona, ma contemporaneamente si prova una a volte inspiegabile invidia per essa, forse non la si ama, o forse non la si ama bene.
Pensiamoci, cari lettori.
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