I valori o principi o virtù morali dell’uomo, di cui destra, centro e sinistra politiche nulla se ne calono. Per disinteresse o per incompetenza?
Le Virtù sono le Qualità morali dell’uomo. Ecco le quattro principali virtù umane, o cardinali, classiche, presenti sia nella filosofia greca (Aristotele), sia nella teologia cristiana (Agostino di Ippona, papa Gregorio Magno e Tommaso d’Aquino), in seguito riprese dalla filosofia morale moderna (Kant): la “prudenza”, la “giustizia”, la “fortezza” (o “coraggio”) e la “temperanza”, ma, aggiungiamo, anche l'”umiltà”, il “silenzio” e l'”obbedienza”, tre virtù umane “integrative”, per una morale non solo religiosa ma semplicemente umana, completa, come suggeriva Benedetto da Norcia.
Di questi tempi il termine virtù è ritenuto un po’ desueto, perché considerato quasi ecclesiastico-religioso; si preferiscono, soprattutto da parte dei media, termini ritenuti (erroneamente) quasi sinonimici come princìpi o valori. In realtà, non sono sinonimi di virtù, parola che conserva anche una profondità semantica superiore, in senso antropologico-morale.
In altra sede ho sviluppato una necessaria riflessione sull’etica generale o filosofia morale, che sono gli ambienti nei quali si esplicano vizi e virtù. Se etica e morale, sul piano etimologico sono sinonimi, rispettivamente derivando dal greco (etica da èthos, èthou) e dal latino (morale da mos, moris), nell’uso e nell’accezione comune hanno assunto significati differenti, anche se complementari, laddove etica vuol dire raccolta dei princìpi di comportamento, mentre morale è piuttosto un ambito psicologico-pratico nel quale l’uomo agisce.
La virtù è la virtus latina, dal termine latino vis, forza, e anche da vir, uomo valoroso, nonché da aretè in greco, che significa fortezza, quasi che la fortezza possa essere ritenuta la virtù per eccellenza.
Ordunque la virtù appartiene all’uomo–valoroso-che-agisce-con-forza. Ovviamente teniamo conto del maschilismo filosofico-letterario dei tempi classici.
La virtù è dunque una qualità di chi è forte e valoroso. Innanzitutto. Ma non basta.
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Aretè è dunque parola greca (ἀρετή) che in origine significava la capacità di qualsiasi cosa, animale o persona di assolvere bene il proprio compito: così c’è un’arte virtuosa dell’arco, un’arte virtuosa del cavallo etc.
Sappiamo che l’uomo ha bisogno di esercitarsi, sia fisicamente sia psicologicamente per migliorarsi. Se la ginnastica è l’esercizio fisico per eccellenza, la conoscenza e la pratica delle virtù morali è “l’esercizio” per il miglioramento interiore e morale.
La “scimmia nuda” (cruda e incompleta espressione dello scientismo moderno) autocosciente, in altre parole l’uomo stesso, ha bisogno di una diuturna manutenzione morale, per non far prevalere gli effetti (sulle sue azioni) che si possono riferire al patrimonio genetico in comune con il pur nobile silver back e altri cugini meno affini.
In altre parole per rendere sempre più “umani” il pensiero e l’azione della persona: per renderli, come insegnava Tommaso d’Aquino, dell’uomo, genitivo che possiede intrinsecamente una caratterizzazione morale.
Si può affermare, senza esagerare, che l’homo è sempre essenzialmente “quello della pietra e della clava”, è homini lupus (Hobbes) e richiede un continuo ammaestramento. Il conflitto fra ciò che la natura e gli istinti determinano e il giudizio sull’agire soggettivo libero delle facoltà razionali è sempre presente. Circa l’immutabilità strutturale della mente e della coscienza umane (su cui è in corso un vastissimo dibattito), vi sono anche opinioni divergenti, fiduciose sulle possibilità di un cambiamento positivo (cf. Steven Pinker, Il declino della violenza, Mondadori 2010).
Le virtù morali che reggono l’intero impianto della struttura psichico-spirituale della persona sono la prudenza, la giustizia, la fortezza (o coraggio) e la temperanza (o equilibrio). Propongo l’analisi teorica che Tommaso d’Aquino sviluppa nella Summa Theologiae Secunda secundae.
LA PRUDENZA
La Prudenza, come virtù guida (aristotelicamente virtus virtutum), va scomposta nelle sue parti costitutive, che sono di diversa natura: a) parti soggettive: memoria (come capacità di ricordare e tenere-a-mente), intelligenza (come dotazione psichico-spirituale), docilità (come capacità di accoglienza dell’altro), solerzia (come capacità di agire in modo tempestivo), razionalità (come dotazione di logica naturale), provvidenza (come intervento di destino), circospezione (come abilità di trattativa), cautela (come capacità di tergiversare), b) parti integranti: prudenza individuale, prudenza politica, prudenza economica, prudenza sociale; c) parti potenziali: eubulia, che è una sorta di volontà buona, sinesi, cioè capacità/volontà di collaborazione, gnome, vale a dire conoscenza dei fatti.
LA GIUSTIZIA
La Giustizia va coniugata nelle sue tre dimensioni: a) generale, o politico-sociale: per noi Italiani il “deposito” di una giustizia generale può essere considerata la Costituzione repubblicana b) di scambio, o contrattuale, con la quale le persone decidono come muoversi individualmente e collettivamente nei vari mercati; c) distributiva, o di solidarietà (welfare), come capacità di gestione delle risorse disponibili per un “bene comune”. Aspetti particolari possono essere considerati anche la magnificenza (come capacità di essere (non di apparire), grandi nell’animo), la munificenza (come generosità e altruismo) e la longanimità (come capacità di comprensione dell’altro o di empatia).
La virtù di giustizia deve essere però sempre aiutata e supportata dalla virtù di epichèia, che è un sapere particolare, legato alla virtù di prudenza (nelle dimensioni potenziali della gnome e dell’eubulia), atto ad assumere decisioni ad hoc. L’epichèia è la virtù che permette di affrontare le situazioni particolari, applicando il principio di giustizia secondo esigenze straordinarie.
LA FORTEZZA
La Fortezza può essere detta anche coraggio. Le parti principali che la costituiscono sono la pazienza (come capacità di sopportazione), la tenacia (come capacità di resistenza) o perseveranza (idem, non userei il termine assai diffuso di resilienza) e la magnanimità (la capacità di perdono).
Parte costitutiva della virtù di fortezza, o coraggio è la pazienza. “Essere pazienti” significa essere capaci di patire (dal verbo greco pàsko, πάσκω, da cui pàthos), cioè di sopportare, e ancora, di supportare (dal verbo latino sub-fero).
LA TEMPERANZA
La temperanza è strutturata come segue, ovvero ne fanno parte le seguenti virtù: la verecondia (come rispetto della sensibilità propria e altrui), l’onestà (come rispetto dei diritti reciproci e limpidezza nei comportamenti), l’astinenza (come capacità di non utilizzare ogni risorsa altrimenti necessaria), la sobrietà (come capacità di limitare i consumi), la pudicizia (come capacità di vergognarsi evitando esagerazioni nell’apparire), la continenza (come per la sobrietà), l’umiltà (questa virtù aiuta la temperanza!), la mansuetudine (come non aggressività), la clemenza (come capacità di comprensione dell’altro e perdono), la modestia (come sincera valutazione dei propri limiti umani).
Oltre alle quattro virtù “umane”, cardinali, le virtù più evidenziate e apprezzate nella lezione del Santo di Norcia, Subiaco e Montecassino, in altre parole l’umiltà, l’obbedienza (cf. La Santa Regola) e il silenzio, possono essere considerate anche al giorno d’oggi un riferimento eccellente per chi fa politica, per chi fa impresa, per chi si occupa di giustizia, per chi gestisce risorse Umane, perché l’uomo come struttura e fondamento non cambia, pur nel mutamento dei tempi e dei sistemi collettivi socio-politici ed economici.
LE VIRTU’ “BENEDETTINE”
Ecco dunque che, dopo le quattro virtù cardinali, propongo all’attenzione del lettore altre tre virtù, che il mondo benedettino riteneva essere molto importanti per l’agire morale l’uomo, che prima citerò e successivamente cercherò di illustrare.
L’umiltà è un sentirsi-vicino alla terra (humus), e dunque fallibili e fragili.
L’obbedienza è un mettersi in ascolto (ob-audire), in piedi, come il viandante di ogni tempo dell’uomo, e pronti ad agire secondo saggezza e conoscenza (competenze).
Il silenzio non è un vuoto mentale o l’assenza di proposte, ma il momento e il modo che le fa maturare. Collegate al silenzio e funzionale ad esso sono la sobrietà e la proprietà di linguaggio.
I tre concetti virtuosi dovrebbero essere declinati alla luce di un quarto concetto unificante, quello di Persona, come essere razionale autocosciente libero. Che cosa è la persona, l’uomo?
L’uomo è autonomo e libero, ma deve fare i conti con la propria finitezza naturale, con la parabola della propria crescita, sviluppo e declino fisico (e talora mentale). Occorre sempre “ricordarsi” (vale a dire richiamare al cuore, e non solo tramite il processo mentale della memoria) ciò che si è e ciò che ci può riguardare: debolezza e coraggio, salute e malattia sono possibilità esistenziali sempre presenti.
Cf. Il sillogismo dimostrativo: 1) l’uomo è un essere razionale, 2) l’essere razionale è libero, 3) l’uomo è libero.
Il potere e le disponibilità economiche presenti a livello soggettivo, non impediscono che ogni essere umano rimanga irrimediabilmente e necessariamente “prigioniero” della propria “creaturalità” e del proprio limite. Occorre anche mettere in subordine la propria volontà (e il proprio orgoglio) quando questa è contraria al conseguimento, con gli altri, del bene comune.
L’UMILTA‘
L’umiltà è fomite e origine della sobrietà, poiché non vi può essere umiltà se non nella consapevolezza che i mezzi materiali sono da considerare sempre tali, e mai un fine o un modo di autoaffermazione individuale. L’umiltà è parola fuori moda, desueta, e può dare anche fastidio, ma la sua essenza avvicina l’homo all’humus dell’inizio della vita, all’origine del Tutto.
Cf. Il Tao Te Ching di Lao Tzu: l’umiltà vince perché accoglie dal basso, o come la Madre terra.
Esercitando la virtù di umiltà, vi deve essere l’accettazione dei ruoli diversi, nell’ambito di una gerarchia razionale, non confondendo la nozione della pari dignità tra gli umani con la nozione dell’irriducibile differenziazione intersoggettiva. Occorre, perciò, anche considerare la Struttura di Persona che dà una risposta alla pari dignità tra tutti gli umani… e la Struttura di Personalità che indica la specifica differenziazione e il principio d’individuazione tra gli umani.
Esempi di domande e risposte che attestano la vera umiltà:
Che cosa scegliere? Voglio oppure mi piacerebbe? Io, oppure noi? Non hai capito oppure forse non mi sono spiegato bene? Io non avrei fatto così oppure non so cosa avrei fatto al posto suo? Bisogna fare così oppure si potrebbe fare così? A me non la si fa oppure di solito mi accorgo. Qualificarsi come l’ultimo. Tacere osservando il silenzio e rispondere se interrogato. Non ridere alzando la voce, perché è da stolti. Esprimersi pacatamente e seriamente. Essere, non solo apparire umili. È anche una sospensione di giudizio sull’altro al quale si obbedisce, in vista e nell’attesa di conferme dell’autorevolezza.
L’OBBEDIENZA
Chi rischia di più nella dinamica dell’obbedienza è chi la chiede, non chi la pratica.
L’esempio più alto e paradossalmente illuminante è quello del richiesto sacrificio d’Isacco ad Abramo da parte di Dio. Abramo obbedisce senza chiedersi il perché di tale intervento divino. E viene fermato dalla mano dell’Angelo sull’orlo. Cf. Gen 22, 1 – 19.
L’obbedienza è dunque una virtù paradossale, rispetto alla nozione corrente della crescita personale e professionale individuale, oggi molto connotata da esigenze urgenti di conseguimento del successo, perché richiede come corollario fondamentale la virtù di pazienza, in altre parole la capacità di attendere che maturi la situazione per poter richiedere, a propria volta, l’obbedienza agli altri.
L’obbedienza è la capacità di considerarsi con realismo e onestà intellettuale, e di creare le prospettive di un’abitudine a richiederla, dopo averla praticata. Abitudine da intendersi nel senso classico di habitus, cioè virtù, che un “essere abituati a fare …”. Il segno più evidente dell’umiltà è l’obbedienza.
L’obbedienza deve fare mettere la sordina alla proprie urgenze, quando queste sono dettate dall’egoismo, cosicché la perfetta esecuzione di un lavoro è simbolo dell’accettazione dell’obbedienza.
IL SILENZIO
Il silenzio, si sa, può essere di molti tipi. Vi sono silenzi leggeri e silenzi pesanti, gradevoli e sgradevoli; vi è il silenzio di assenso e il silenzio di dissenso. Il silenzio alto della montagna ispira. Il silenzio rotto dalla risacca marina fa compagnia. La mormorazione, sia della bocca sia del cuore, è la blasfemia contro il silenzio.
Il silenzio non è un “qualcosa che manca”, esso è piuttosto uno spazio/tempo di attesa e maturazione, di ricerca, di apertura e disponibilità al nuovo. Pur essendo una “dimensione di assenza” il silenzio è pieno e fecondo, se vissuto con attenzione: essere attenti è un essere-presenti-senza-ansia e dissipazione energetica. Il silenzio che c’interessa è quello che favorisce l’introspezione, la meditazione e la riflessione. È la pace della vita interiore, il riposo dei e nei valori più intimi. È presenza, dedizione e premura a se stessi. Il silenzio, perché sia utile, deve essere ricercato liberando la psiche dai turbamenti. Deve così diventare silenzio interiore, anche se vigilante.
Esso deve liberare l’anima dalla molteplicità delle impressioni, delle emozioni (di questi tempi si esagera con le emozioni!) e degli eventi, che a volte sono inezie e disturbo, riconducendola all’unità di un sentire meditativo e integrato.
Il silenzio lavora in profondità, scendendo per volute successive, dalla superficie dell’esistenza alla consapevolezza dell’esistere. Il silenzio interiore va preparato con la disposizione d’animo all’accoglienza umile del proprio limite. Esso rinvia alla condizione primordiale di “prima della parola”. Il silenzio si nutre di codesta triade (cf. Alexander Langer): dulcius (più dolcemente), profundius (più profondamente), suavius (più delicatamente) vs. la triade altius (più in alto), fortius (con più forza), citius (più velocemente). La scelta deve essere ponderata all’interno delle due triadi, ciascuna delle quali, da sola, non basta. Ad esempio, talora, la violenza e la superficialità espressiva possono esser scambiate per forza, ma sono, in realtà, sintomo di debolezza.
Il silenzio va considerato come la diastole del cuore umano, così come la sistole è il suo rumore operativo. Ricorda anche l’inspirazione e l’espirazione dell’aria del sistema polmonare. Entrambi vita, entrambi indispensabili. È preferibile frenare la spinta naturale all’eloquio, analizzando bene ciò che si vuol dire. Le molte parole, infatti, fanno sbagliare.
Il silenzio è la precondizione della comunicazione sana, come strumento principale di una qualità relazionale capace di sviluppare l’umanità di ciascuno.
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