“Era solo incompetente e inabile, per questo ha inferto 75 coltellate a Giulia”. Venezia, Corte d’Assise. Sono sconvolto dal testo del dispositivo della sentenza sulla condanna all’ergastolo di Filippo Turetta. Queste sopra riportate, sono all’incirca le parole che si trovano nella sentenza redatta dai giudici veneziani
Un bias psico-morale, come insegna la psicologia scientifica, è un errore cognitivo di cui si è comunque in qualche modo responsabili. Si tratta, tecnicamente, di una forma di distorsione della valutazione su un fatto generata da un pregiudizio. O da ignoranza, aggiungo io. Come, a mio avviso, in questo caso.

I giudici veneziani, nell’elaborare il dispositivo della sentenza con la quale hanno motivato (dato ragioni) della pena dell’ergastolo inflitta a Filippo Turetta per l’assassinio di Giulia Cecchettin, sono incorsi in un clamoroso bias psicologico, morale, espressivo e quindi anche comunicativo e relazionale, innanzitutto verso la famiglia di Giulia, e poi verso tutto il “pubblico” che osserva, legge e ascolta, soprattutto le donne e le ragazze.
Il Turetta, secondo questi magistrati (uomini e donne, mi risulta), che forse non si sono minimamente peritati di consultare un sociologo o uno psicologo, e financo un filosofo morale, (o, se lo hanno fatto non li hanno capiti, ovvero gli esperti consultati non erano… esperti), e sarebbe stato opportuno che li avessero consultati, ha inferto settantacinque coltellate a Giulia perché era inesperto della faccenda, inabile, inefficiente e dunque, per garantirsi il nefando esito della sua decisione (perché di libera decisione si è trattato!), ha “dovuto” infierire sulla ragazza, che stava rapidamente diventando (si vede a sua insaputa), un corpo senza vita. Non perché è stato crudele.
Infatti, nel dispositivo della sentenza non si legge il termine crudeltà, come parte essenziale dell’azione omicidiaria compiuta.
Se da un punto di vista di fredda logica formale la descrizione dei giudici può anche essere accettata, ciò che non può essere assolutamente condiviso è il piano semantico, cioè il significante del termine aggettivale da essi utilizzato “… inesperto, inabile”, riferendosi al Turetta.
Mi spiego, anche se non dovrebbe essere necessario farlo.
Il termine “inesperto”, con il suo prefisso “in”, nella lingua italiana, come in numerosi altri casi (in-sufficiente, in-abile, in-adeguato, in-etto, in-cauto, im-probabile, in-capace, in(o an)-affettivo, in-attuale, etc.) rappresenta in negativo l’etimo principale positivo, che è il suffisso: nel caso nostro: “esperto, abile”. Nel caso specifico, l’assassino “avrebbe dovuto” essere esperto nell’accoltellamento della sua vittima. Questo in logica formale. Ma se ci limitiamo alla logica formale, a mero titolo di esempio di modello argomentativo similare, potrebbe anche essere incontestabilmente vero il sillogismo dimostrativo seguente: a) gli uccelli cantano, b) Pavarotti canta, c) Pavarotti è un uccello.
Risulta evidente come in questo caso il sillogismo logico pecchi di un “peccato logico mortale”: la discrasia fra le due premesse, a) e b), per cui si è “analogato” un essere umano che canta (Pavarotti) con degli animali pennuti che cantano (gli uccelli), concludendo che il primo e i secondi appartengono alla medesima specie. Si tratta di una forzatura evidente.
Un esempio, di contro, di un sillogismo dimostrativo vero, sia sotto il profilo formale, sia sotto il profilo sostanziale: a) l’uomo è razionale, b) chi è razionale è libero, c) l’uomo è libero. In questo sillogismo non ci sono contrasti logici tra la prima a) e la seconda b) premessa, e pertanto l’esito della dimostrazione è inconfutabile.
Ecco, i giudici veneziani hanno compiuto, se pure in un altro contesto, un errore logico argomentativo intrinsecamente contenente un inaccettabile aspetto morale, poiché non hanno ritenuto di osservare l’assoluta e gravissima inadeguatezza di un giudizio che utilizza termini obiettivamente equivoci: esperienza, abilità, che anche se posti in negativo con i termini in-esperienza, in-abilità, pur conservavano in nuce la positività del termine-matrice, i cui echi significanti restavano (e restano) nella mente del lettore/ uditore.
In altre parole, l’impressione di chi ha letto queste espressioni è stata fortemente disturbata dalla scelta di termini che, se sul piano logico formale reggono, sotto il profilo sostanziale e morale suonano come un orribile insulto alla vittima, ai suoi cari e a chiunque legga o leggerà il testo.
Ho letto in mattinata le cronache relative a questa sentenza: in esse nessun giornalista, né cronista né opinionista (vedremo nei prossimi giorni) si è misurato con un’analisi analoga a quella che qui propongo. Né i politici si sono distinti per alcun acume di giudizio.
Tutti e tutte, quelli e quelle di destra con toni manettari, quelli e quelle di sinistra con toni edulcorati e vòlti a piatire (non pietire, mi raccomando) il lettore.
Il mio pensiero va con discrezione alla famiglia di Giulia (e anche a quella di Turetta), perché vittima di indicibili dolori, se pure diversissimi.
Provo, invece, un senso di incredulità e anche vergogna verso chi ha redatto il dispositivo della sentenza.
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