Di altri tempi storie
Come per dire “heri dicebamus“, ed è già oggi e tanti giorni, quanti? Migliaia. La foto segna l’attimo nel quale si fissa l’immagine, che è mortale come tutto ciò che è del mondo, ma eterna sotto il profilo dell’atto libero che l’ha costituita, sub specie aeternitatis. Eterna come actus essendi, atto d’essere, unica e irripetibile, immodificabile perfino da parte di Dio, che la può solo contemplare (ex parte Dei).
La foto di sinistra rappresenta un concerto dei primi Settanta (’71? …appena “maturato” al classico, il mio amatissimo “Stellini”!). Ricordo che il pezzo era Anthem dei Deep Purple, i primi Deep, quelli in cui cantava ancora Rod Evans, prima dell’avvento di Jan Gillian. Un pezzo rock progressive-classico, con un incipit solenne dell’organo e un canto disteso. Dietro il leggio s’intravede il volto pacioso di Franco da Torviscosa, chitarra, e uno spigolo della fronte di Patrizia, organo elettrico. Non avevo il talento di Beatriz che canta anche cose sue. Le mie canzoni erano (solo) cover, ma avevamo anche Otis Redding in repertorio (Respect, Security, I can’t turn you loose, I’ve been loving you too long, …), tra i pochi, al tempo, i Creedence (It’s just a thought, Who’ll stop the rain, Have you ever seen the rain, Long as I can see the light, …), l’Equipe 84 (Casa mia, Auschwitz, E’ dall’amore che nasce l’uomo, Nel ristorante di Alice, …) e i New Trolls (Signore, io sono Irish, Una miniera, Vorrei comprare una strada, …). E qualcosa anche dei Beatles come Let it be e Yesterday. Il microfono era preso a nolo e l’impianto voce pure.
Quella a destra relax in montagna, val Degano, borgo silente di Ovasta (1974? …sì, mi pare).
Le cicale cantavano forte in quelle estati, sul gelso contorto del mio cortile. Silenzi terribili accompagnavano i miei pensieri ventenni o poco più.
Distanze infinite segnavano i miei pensieri, viaggi nello spirito “mi vida que es tu?”, storie di onde e di generazioni mentre osservavo il tramonto in fondo all’orto, che dava sulle immense “braide”, lì dove finiva il paese.
Terre e nomi di fiori, disteso su un tronco, un libro di Pavese in mano, le prove con il gruppo musicale in serata, ieri sera partitona, 26 punti fatti, mezzi da entrate e mezzi da tiri. Si andava a dormire mai prima dell’una, d’estate. E l’indomani mi alzavo alle sei per andare in fabbrica, operaio, studente per sempre. Discente della vita, operaio nella vigna, ora dottor professore (che cosa professo e davanti a chi?) in umile cerca di pezzi di verità.
E le cicale cantano ancora, qui fuori, mentre scrivo solitario.
La solitarietà è diversa dalla solitudine, così come l’adiratezza è differente dall’iracondia. Ne parlo, perché mi appartiene: non so quanto da patrimonio genetico e quanto da mancato controllo. Ho qui con me ora il De ira di Seneca per capire meglio quello che sono e come sono, anche se di Seneca non condivido la condanna recisa, stoica, delle passioni.
E le cicale cantano ancora, il vecchio vinile registrato a San Marco mi manda il canto del Salmo Deus meus di Giovanni Gabrieli.
Ringrazio il Signore d’esser vivo in questo attimo ancora eterno al suo sguardo. Amen.
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