“A flagello Terraemotus, libera nos Domine”, L’Aquila, 6 aprile 2009
Quando le acque o la terra prendono il sopravvento l’uomo torna ai tempi primordiali della pietra.
Guarda attonito i muri sbrecciati e la sua casa crollata e non si allontana. Preferisce dormire in macchina in vista del luogo, dell’utero nel quale si è chiuso per dormire migliaia di notti, dove è nato, dove sono nati e forse morti i suoi genitori, nonni, bisavoli, dove con uno sguardo si raggiunge la fontana e la chiesa, e l’angolo dietro la latteria del primo bacio, dove…
La forza invitta della natura paurosa che Leopardi temeva (“Qui su l’arida schiena/ Del formidabil monte/ Sterminator Vesevo (…)”, La ginestra, o il fiore del deserto, 1 – 3, I Canti) è lì.
E l’uomo torna a essere solo se stesso, fragile canna pensante (Pascal), orante, bestemmiante, silente, sperante…,
chiedendosi: perché sono qui, perché a me, perché ora, perché tanto dolore, che cosa posso sperare?
Senza trovare risposta, se non nel silenzio del sonno. E più tardi nelle cicatrici della memoria e del corpo.
Fratelli miei de L’Aquila e dei bellissimi borghi d’Abruzzo, dove passo ogni anno transumante verso ritmi vitali più consoni al cuore, fermandomi dall’amico Giuseppe Bianco da San Vito di Chieti incombente sull’Adriatico, prego quel Divino che è Padre nostro.
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