Palinodia Salentina
Finis terrae, così come quella affacciata sull’oceano i Lusitani chiamarono la terra, anche l’estremo lembo della Puglia, fichi d’India e canne e scogli, per sfuggire all’estrema spremitura degli impegni.
Il sole sorto dall’Epiro si effonde sulle rocce a Leuca, e verso le basse Serre steppose tutt’intorno.
Il viaggiatore è giunto, infine.
Fuori dal gran caldo in cerca di città di pietre, d’altre scansioni della terra: Gallipoli d’estate, la Bella Città, e Galatina, indugio meridiano, splendore della pietra leccese a sant’Irene e a Santa Croce. I muri a secco definiscono la strada dove l’ulivo e la terra offrono l’approdo alla masnada turca, in quel di Otranto. Ottocento “santi” attendono il passaggio del viandante.
Il mare ha trasparenze e sabbie sinuose in fondo, il sole s’appoggia pigramente sulle aspre ingobbature della costa. Biancheggiano le case sulla baia che la risacca sfiora pigramente, rivelandone il profilo, come un abito di seta il corpo di una giovane.
Si ripete un rito antico: l’abluzione nell’onda dello Jonio, fatto cinerino dal crepuscolo, là dove le sue acque mescolate all’Adriatico, cambiano nome, Mare di Mezzo, Mediterraneo.
Le chiese di Lecce sono aperte, afa pesante di santoni, ma santa Irene è sempre lieve, ché prende luce da una finestra alta. La pietra della Murgia si scalfisce al caldo al vento, e la pioggia la dilava. Le colonne percolate dal tempo ne effondono l’odore. Vecchiezza testata dal tempo.
Al ritorno i presepi costeggiano il cammino. Calimera, buon giorno e buon augurio. I Grichi ti guardano sottecchi, all’ombra del palazzo baronale di Martano. Eterna azzurrità si staglia oltre l’orlo del tetto terrazzato, abbacinante il bianco delle case. Fichi d’India ai bordi della strada, lentischi rari, polvere, pajare dell’età del bronzo: silenti dirute abitazioni.
Silenzio sull’altura della Madonna del Casale, tra gli ulivi e una scritta che invita alla contemplazione.
I più fortunati vengono da Tangeri, altri da più remote plaghe: percorrono la spiaggia con collane e statuette e strass, vi chiedono un regalo, barcollanti, tra gli ombrelloni e i bagnanti imbambolati. Pensare a Marrakèsh e alle sue rive, solitudini frustate dall’Atlantico.
Alimini azzurreggia prima di Porto Badisco e Castro Marina sullo scoglio, macchia Mediterranea ante il mare increspato dal perenne respiro settentrionale, che scende per di lì come per Durazzo, poche miglia di fronte.
Alimini, laghi increspati al vento del mattino, sentieri fra lecci e salmastre tamerici. Un politico di grido che fa jogging, ma piano. Il viandante, allenato da sempre, lo stacca facilmente: “Buonasera”.
Chi suona la taranta indugia sulla falce di spiaggia che da Torre dell’Orso giunge a Otranto, traversata dal vento che traversa il mare. Le onde spumeggiano frangendosi sulla bianchezza striata della sabbia. Cicale vagule.
Peccato per l’ànthropos privo di nozione del bonum commune, che sporca e brucia, e sprezza. Fors’anche perché nel meridione non fa mai freddo e non c’è bisogno di preservare il legno per l’inverno, come da noi. Torre Guaceto prima dell’incendio, verde nella sua macchia ai limiti delle dune, arsa, al ritorno, per chilometri. “Volevo sentirmi importante”, ha spiegato il diciassettenne incendiario, reo confesso. L’incuria a tratti, dove non si paga il mare, si sporca, tanto non è “roba mia”.
I trulli sono museo per giapponesi, nella calura.
Buoni, però, i cibi della terra, gli odori, i vini, i fichi raccolti per le infinite strade polverose nell’oceano di ulivi. Il Leverano e il Primitivo del Salento, il rosso Leone de Castris, il Rosato Musivo d’Otranto, il Gravina bianco, freddo e secco, e altri, non da profano, come il viandante che di lì passa, poco aduso alle finezze.
Stralunato a Teramo, infine, giunse, con la corsa, dalle Murge per la val d’Itria, dopo avere scorto nella sua bianchezza Ostuni, nel crespuscolo.
E con la memoria al vento che trasporta una preghiera di pietà per i soldati morti a Canne, nel silenzioso vento.
Ultima tappa, per la piccola ragazza che cresce, a Recanati. La sorpresa della stanza dove il Conte Monaldo Leopardi osservava apparire il genio del giovane Giacomo, e Paolina e Pier Francesco. Ma Giacomo, appena tredicenne, stava chino su sinossi comparate di ebraico e greco. Sudate carte, studio matto e disperatissimo. E poi sul Colle a dire l’Idillio verso l’Infinito.
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