…un povero attore, che s’agita e si pavoneggia per un ora sul palcoscenico e che poi scompare nel silenzio
Stamani parafraso un aforisma di Shakespeare, elidendo la frase iniziale che recita “La vita (cioè l’uomo) non è che… (vedi titolo). Forse lo spirito del bardo quel giorno era inquieto e incline al pessimismo, per scrivere una massima del genere. Non mi soffermo su questo, ma sul contenuto, che poi coincide con i primi versetti del cap. I di Qoèlet, il sapiente che scrisse l’omonimo libretto biblico: “Parole di Qoèlet, figlio di Davide, re a Gerusalemme./ Vanità delle vanità, dice Qoèlet,/ vanità delle vanità: tutto è vanità/ (…). E in Leopardi troviamo, in consonanza, l’ultimo verso di A se stesso: “(…) E l’infinita vanità del tutto“.
Ah, dimenticavo Vanity Fair, la Fiera delle vanità, di William Makepeace Thackeray, romanzo pubblicato a puntate su un quotidiano londinese tra il 1847 e il 1848, nel quale Rebecca (Becky) Sharp è il vanesio femminino, manipolatrice eccellente e pericolosa.
Vanitas vanitatum, vanità delle vanità, sembrano quasi esclamare Qoèlet, Shakespeare, Leopardi e Thackeray, pressoché all’unisono.
Perché questa attenzione alla vanagloria, parente stretta e fomite del gravissimo vizio di superbia, anch’essa vizio capitale nell’elenco antico di Evagrio Pontico e di Gregorio Magno?
Forse in ragione della tendenza umana a vantarsi, ad autoassolversi, a mitigare ogni ammissione di colpa personale, cercando prove e motivi plausibili anche dei comportamenti peggiori.
E pensare che la grandezza dell’uomo può essere sconfinata, se continuamente esplorata come un territorio sconosciuto, i cui confini non sono noti; e pensare che basta così poco per trovare un equilibrio, se si vuole: un po’ di umiltà e altrettanta determinazione; un po’ di pazienza e altrettanta fiducia in se stessi.
Non occorre furoreggiare e pavoneggiarsi a questo mondo, per trovare l’equilibrio di una gioia quieta e non aggressiva. La ricerca della felicità è aggressiva, quando non guarda in faccia nessuno, quando rende ogni altro funzione del proprio successo, che è così deprivato del medesimo valore.
Conosco molte persone che fondano il proprio agire sulla strumentalizzazione altrui, senza alcuna remora o ripensamento, (almeno apparentemente), persone che arrivano in alto con meriti minori di altri (politici, dirigenti vari…) perché sono più capaci di cinismo e di sfruttamento di chi gli è prossimo.
Ma alla fine, anche costoro cadranno vittime del contrappasso, che ogni destino di vanità gli riserva: prima o poi (tanto cambia assai poco): un agitarsi, talora scomposto, sul proscenio, per poi scomparire alla vista, e anche al ricordo.
Non resta, infatti, nel cuore di nessuno, il vanitoso, perché se ne impadronisce l’oblio.
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