L’uomo della fornace e della pietra
“Compagno Tito vieni abbasso!”, esclamò con forza Don Paolo. Il cappellano era venuto a benedire come da tradizione la fabbrica di laterizi che stava sul Fiume. Era solito venire lui, mandato dal signor Prevosto, che invece preferiva andare a benedire per le case.
Comunista convinto, ateo e anticlericale, Tito sulle prime fece finta di non sentire, ma al successivo richiamo, si decise a scendere dal soppalco sul quale stava lavorando, a rifinire con cura alcune pile di coppi.
Avevano detto a Don Paolo che Tito non voleva partecipare alla benedizione perché, lui sosteneva, i preti hanno sempre imbrogliato i lavoratori, il Vaticano si era messo d’accordo con Mussolini contro la classe operaia. “No, ti sbagli Tito”, gli diceva Pietro, un suo compagno socialista, che però andava a messa alla domenica, non è vero che i preti sono tutti dall’altra parte, anzi. Infatti Pietro sapeva che molti preti avevano fatto la Resistenza e avevano rischiato la pelle come partigiani.
Una cinquantina di operai aspettava il sacerdote sullo spiazzo antistante l’ingresso della fabbrica. Era una bella giornata di maggio degli anni ’50, quando c’erano poche fabbriche che assumevano e molti erano costretti a partire in emigrazione.
Il fiume Stella scorreva verdissimo e limpido a poche decine di metri e gli uccelli cantavano la primavera. Il padrone Anzil aveva ordinato di spegnere le macchine di produzione mantenendo in attività solo i forni, nei quali cuocevano partite di centinaia di mattoni alla volta. Mattoni ben squadrati, parallelepipedi perfetti, della cui qualità quegli operai menavano vanto in tutta la Bassa.
Don Paolo recitò alcune brevi preghiere e poi impartì la benedizione agli operai e al titolare, che era arrivato lì di proposito con la sua Flaminia 2700 blu scura. “In nomine Patris, et Filii et Spiritus Sanctus,… Amen, risposero in coro, forse compreso Tito.
Era quasi mezzodì e si avvicinava la pausa per il pranzo. Pietro disse a Don Paolo di trattenersi, ché avevano un paio di buoni salami nostrani e alcuni fiaschi di vino, bacò e merlot di casa. Tutti avevano la gamella con il minestrone o la pasta, che scaldavano nei forni di cottura del laterizio. Il padrone aveva dato ordine di anticipare la pausa per riprendere un’ora dopo.
Don Paolo accettò l’invito e si sedette con un gruppo di operai, c’era anche Tito, che si era messo in disparte seduto su un tronco di vincastro abbattuto. Il fiume scorreva poco in là con la sua acqua smeraldina, che aveva un suono riposante. Uccelli chioccolavano in giro, mentre qualche gazza e una ghiandaia si facevano vicine in cerca di cibo, che non gli veniva mai negato.
Tagliarono il salame e divisero anche qualche pezza di pane e formaggio. Tito aveva addirittura portato mezza polenta, che aveva tagliato a fette e scaldato nei forni.
“E allora, come va, qua, ragazzi?” Chiese Don Paolo. Gli rispose Gino, uno che veniva ogni giorno dalla Bassa, da Muzzana del Turgnano, a lavorare in fornace: “Eh, pare che qui terranno solo il meccanico manutentore e gli specializzati, per noi manovali non resta che l’emigrazione…” “Sì, aggiunse Pietro, ci stiamo già muovendo per partire la prossima primavera. Qui ci hanno detto che lavoreremo fino a novembre. Andremo in Germania a lavorare nelle cave di pietra”. Don Paolo rimase silenzioso davanti alla decisione di quegli operai, che senza lamentarsi accettavano il loro destino. Capiva così anche la rabbia, la militanza di alcuni, apprezzava lo sguardo buono dei più, si chiedeva perché mai l’Onnipotente, dopo aver chiesto ora a questi uomini di spaccarsi le ossa in fornace, dopo avere rischiato la pelle in Grecia e in Russia, solo pochi anni prima, diversi di loro erano reduci e alcuni con mutilazioni, ora gli chiedeva di andare di nuovo all’estero, a dormire in baracche di legno in mezzo ai boschi, a lavorare a cottimo per dodici ore al giorno sotto la pioggia e al freddo, senza tutele, se non quella della loro forza fisica e in qualche caso della fede. E non trovava risposta. Si limitò ad augurare loro buon lavoro invitandoli ad andarlo a trovare a casa sua. Il cappellano non abitava in canonica, perché una signora benestante aveva lasciato a metà ‘800 una residenza con dei poderi che dovevano servire al mantenimento di questo coadiutore della parrocchia. Si chiedeva ancora perché Dio buono non avesse pietà di quei visi già smunti a trentacinque quaranta anni. E non trovava risposta.
Pietro nel frattempo, passata l’estate e venuto rapidamente l’autunno del ’57, era stato contattato dalla ditta tedesca, cosicché aveva procurato i contratti di lavoro per quarantacinque colleghi e già prenotato un pullman per il viaggio che avrebbe dovuto svolgersi alla fine di febbraio, destinazione Beilstein, distretto di Dillenburg, Land dell’Assia settentrionale, cave di pietra per ponti e massicciate per le ferrovie e i pölder del Mare del Nord, della Ditta Westerwaldbrüche. Si era fatto dare cinquanta lire a testa per le spese postali di spedizione dei contratti firmati. Erano tutti uomini nati tra il ’14 e il ’25, questi ultimi non avevano fatto la guerra, solo quelli fino al ’21 l’avevano fatta. C’era anche un giovanotto del ’33, aveva ventiquattro anni, era bello, con un ciuffo nero, piaceva tanto alle ragazze del paese e a quelle di fuori, che andava a trovare con la sua fiammante Lambretta 125 rossa. Si chiamava Beppino.
A casa c’erano figli piccoli, Pietro ne aveva due, uno di cinque e l’altra di tre anni, Tito anche, ne aveva due, uno di sette e la figlia di nove. Gino aveva un bimbetto in fasce. Rico ne aveva due, Checo ne aveva quattro, ma erano tutti sugli otto dieci anni.
Le mogli lavoravano in casa e nei campi. Quasi tutti avevano qualche vecchio in casa, la none e il nono, si diceva in friulano, che si occupavano dei nipotini e facevano ancora lavoretti: c’erano da tenere gli animali del cortile, mettere su la polenta, andare con i secchi a prendere l’acqua alla pompa in fondo al cortile. Scopare per terra, fare la liscivia per il bucato delle lenzuola, con la cenere del focolare o dello spolert. Che buona era la polenta gialla, quando il nonno, tornando dalla partita a briscola in osteria, si fermava a prenderla al mulino! Era festa, e i bambini amavano mangiarla soprattutto a fette, arrostita e un po’ annerita sulla ghisa dello spolert, magari insieme a qualche crosta di formaggio vecchio arrostito anch’esso sul pianale rovente, con le bolle… D’inverno gli uomini giovani e quelli meno andavano a fare legna in campagna, liberamente, su incarico dei contadini, ai quali ripulivano le ripe dei poderi. Si diceva: “Ai un rivâl di lens di la a fâ, dongje a la Miliane”, che era un fiume di risorgiva immissario dello Stella. Era una festa allora, per i bambini, andare a piedi con la mamma a portare il “gustâ” al papà e al nonno. Papà si divertiva a rispondere alle domande del piccolo che gli chiedeva quanto pesasse quel platano che stavano estirpando o quell’acacia: “Anche dieci quintali”, rispondeva con soddisfazione, pensando che avrebbe potuto guadagnarci qualcosa vendendolo come legna da ardere.
E venne la primavera della partenza. Tutte le mogli erano in piazza a salutare i mariti, anche un paio di ragazze per Beppino che partiva. E molti bimbi, che si erano alzati alle cinque, al buio, era il 27 di febbraio, ancora pieno inverno. Il pullman color arancione partì verso Nord, avrebbe fatto la Pontebbana, e poi, attraversando tutta l’Austria occidentale, da Villaco a Salisburgo, sarebbe entrato in Baviera, e dopo Monaco si sarebbe diretto verso Francoforte sul Meno e le foreste dell’Assia.
Gli anni erano passati. Ogni tardo autunno, a fine novembre, quegli uomini tornavano a casa per ripartire alla fine di febbraio. Alcuni avevano resistito, come Pietro e Gino. Altri, come Rico, Gigi e Checo non erano riusciti a farcela: dopo un paio di “stagioni” Pietro li aveva sostituiti con altri più giovani e robusti.
Quando tornava a casa, Pietro era disponibile ai racconti, e narrava a i due figli che crescevano come si viveva in baracca, quanto freddo veniva già a novembre, degli amici tedeschi che andava ad aiutare nel lavoro dei campi e dai quali si fermava a pranzo al sabato e a volte anche alla domenica. E poi chiedeva, specialmente al figlio maggiore, di raccontare le cose della scuola. Una volta il ragazzino gli disse che il maestro aveva chiesto a tutti che cosa mangiassero a cena. E allora avevano risposto in modo vario. “E tu che cosa hai detto”, gli chiese il padre. “Ho risposto che noi mangiamo la minestra e poi un po’ di polenta e formaggio, o quando c’è, anche un’ala di pollo o di anatra”. “Bravo, gli rispose il padre, e gli altri cos’hanno detto?” Il piccolo si fermò su una risposta, data da un suo compagno che aveva il padre alcolizzato e la famiglia con molti problemi, dove erano in cinque fratelli. “Il maestro gli ha chiesto: e tu Gianni che cosa mangi di sera?” e Gianni aveva risposto “Pastasciutta”. “Ah sì, che buona, aveva replicato il maestro, e quanta ne mangi, Gianni?”. “Tre o quattro fette”, aveva risposto il bambino.
Pietro era rimasto silenzioso, e la mamma li guardò con attenzione. “Bisogna continuare ad andare all’estero”, disse Pietro alzandosi per andare a dormire.
Venne anche quell’anno fine inverno e Pietro partì per un’altra “stagione” in Germania. Aveva superato l’anno prima una grave pleurite che l’aveva tenuto lontano dal lavoro per tre mesi, ma aveva continuato a prendere la paga dalla Cassa di Assistenza tedesca. E si meravigliava perché in Italia non c’era niente di simile.
La fatica in cava era sempre improba, finché un gruppo di operai fece sciopero. Pietro se la prese perché aveva promesso di chiedere un aumento per la stagione successiva.
La delusione e la vergogna per non essere stato capace di mantenere la parola con il datore di lavoro lo schiantò. Oggi si direbbe depressione, ma allora si chiamava esaurimento nervoso.
Tornò a casa e stette per un anno in Italia, lavorando comunque sempre, duramente, poi tornò in Germania ancora per qualche anno, finché ne compì cinquantatre. Era ancora fortissimo, una fibra rara, ma la sua stagione all’estero era terminata.
Lavorò fino ai sessantacinque anni e poi andò in pensione. Pensione bassa, perché molti anni di lavoro erano trascorsi senza contributi.
La Golf rossa sportiva viaggiava veloce sulle ampie autostrade tedesche, a centosettanta. Sfrecciavano le indicazioni delle città: München, Stuttgart, Frankfurt am Mein…Köln. Pietro stava tornando con il figlio oramai grande, che lo stava portando a rivedere i luoghi.
Si erano fermati a pranzo sul Chiemsee dopo Salisburgo, e poi erano ripartiti come se un’ansia li spingesse avanti. Arrivarono alla cava e si fermarono.
Pietro scese dall’auto e si guardò attorno, in silenzio. Suo figlio stette due passi indietro. La cava c’era ancora con le sue ferite, le sue spaccature dentro la collina di pietra. Pietro e la pietra. I boschi di conifere tutt’intorno, e silenzio, ché il paese più vicino era a quattro chilometri. Ancora la baracca, s’indovinava dalle rovine di legname contorto che emergeva dietro un grande cumulo di pietrisco e massi più grandi.
Salendo verso l’Assia si erano fermati a Dachau, le baracken erano le stesse, i destini diversi. Pietro si guardò intorno, forse alla ricerca dei passi, delle figure svanite, delle voci, delle esplosioni del tritolo che usavano per aprire brecce nel granito, dove andavano poi a scegliere i pezzi da caricare sui carrelli in partenza per il Nord. Allora Pietro raccontò la storia della disgrazia. Giovanni era un suo compagno di lavoro, veniva da una frazione del paese, quella sul fiume… Un giorno le mine erano esplose e Giovanni si trovava in un’area pericolosa, perché non era stato avvertito. Un masso gli rotolò sulle gambe immobilizzandolo. Urlò di dolore e per chiedere aiuto. Tra i primi ad accorrere fu Pietro, che si mise dietro il masso e, da solo, con uno sforzo sovrumano riuscì a spostarlo e a far estrarre dagli altri il corpo esanime del compagno. Ambedue le gambe erano state fratturate dalla mole del macigno, ferite e sangue ovunque. Giovanni sopravvisse, ma con un grave handicap, perché rimase zoppo. Successivamente Pietro provò di nuovo a spostare il masso, ma non vi riuscì più.
Questi erano i pensieri, che vagavano nei silenzi del bosco, mentre Pietro e suo figlio si avvicinavano all’auto per ripartire. Si fermarono a Colonia delle tante chiese e a Coblenza, a Francoforte, a Worms e a Spira, e infine a Heidelberg. Pietro camminava con il figlio e si guardava in giro, lui non c’era mai stato in molte di quelle belle città… solo a Colonia e a Francoforte, in tanti anni.
Tornarono una domenica anche alla fornace, che ora era diventata una fabbrica e un deposito di giocattoli, sempre là, sulla riva del Fiume, in mezzo agli alberi della macchia umida.
“Vieni a vedere il Zarnìc”, gli disse il padre. Un laghetto profondo di risorgiva, di cui si raccontavano leggende arcane, come di un luccio gigantesco che ribaltava le barche dei pescatori. E di una trota, anch’essa enorme, forse di trenta chili, che per strani e sconosciuti pertugi ogni tanto arrivava dal fiume Stella, che scorreva poco distante. E la trota e il luccio, di comune accordo facevano strage degli altri viventi delle acque. Si diceva che anche la lontra abitasse quelle acque, ma era un animale timido e in pochissimi l’avevano vista guizzare dalla sponda alle profondità smeraldine del laghetto o del Fiume.
Era chiaramente una “conta”, quella del luccio e della trota, di quelle che si narravano nelle lunghe sere degli inverni freddi di mezzo secolo fa, nelle stalle o nelle cucine basse e fumose attorno al focolare o con le mani sopra la piastra di ghisa dello spolert.
Si guardarono, padre e figlio, e ricordarono quasi insieme di quando bussava qualcuno alla porta, talvolta mal chiusa, era Talico o Gino o Gusto o Checo, amici di Pietro, che venivano un momento a scaldarsi le ossa e a bere una grappa, tornando dalla campagna o dalla fabbrica. Grappa “Maschio” e vino fatto con l’uva dell’orto lungo, in fondo, verso la Braida Anzil.
E sulla piastra di ghisa a volte c’erano due o tre fette di polenta ad arrostire.
Lui era Pietro, mio padre.
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