L’estrema decisione
Fanno bene i giornali, almeno a livello locale, ché in quello nazionale vincono altri interessi, a non enfatizzare le notizie che riguardano i suicidi. Non solo per evitare di alimentare meccanismi simulativi, ma ben di più per il rispetto che si deve a chi giunge all’estrema decisione su di sé.
Accadono spesso i suicidi: se ne ha notizia talvolta con il passa-parola che pietosamente dà conto di un improvviso venire meno di una persona ancora giovane, di un’epigrafe inaspettata e dal tono anodino.
Le domande che sorgono dopo: ma ultimamente com’era, non se n’era accorto nessuno che era cambiato? Perché non si è potuto fare qualcosa prima? Perché chi gli stava vicino non ha chiesto aiuto?
Il percorso interiore, il lavorio e il logorio psichico che precede tale decisione è differente caso per caso. Non esistono “modelli”, vi sono molti saggi in merito, da quello ottocentesco di Durkheim ai nostri giorni.
Si tratta di un malessere che vorrei chiamare “spirituale”, dando al termine tutta la ricchezza semantica che può contenere, dallo psichico-emotivo al valoriale-raziocinante, ed è un malessere che cova silenzioso nell’anima.
La sua origine può manifestarsi come un rivolo di tristezza per un fatto, un accadimento negativo, un insuccesso, che poi tende a riprodursi fino a diventare insopportabile.
Qualche ricerca recente magari ci spiegherà che è stata trovata la proteina “colpevole” della tendenza suicidiaria e dunque con un’origine genetica, un po’ del genere “proteina dei tradimento” coniugale. La tendenza contemporanea a “biologizzare” è l’attualizzazione di una tendenza analoga, in vigore da un quarantennio, quella a “socializzare e sociologizzare” tutti i mali presenti nell’uomo. Praticamente tutto ciò che ci accade di negativo sarebbe “colpa” del sistema, della società o di qualche altro vettore causale extravolontario.
Se avessero ragione quegli orientamenti scientifici verrebbe meno nient’altro che il libero arbitrio, vale a dire ciò che differenzia l’animale-uomo dagli altri animali, e un determinismo inesorabile sarebbe padrone assoluto delle nostre vite.
Tornando al tema drammatico del suicidio, senza negare che contribuiscano fortemente alla scelta tragica del togliersi la vita, spesso accompagnata – soprattutto nei drammi familiari – all’omicidio, le circostanze ambientali, la cultura e la mancanza di supporti affettivi accessibili “lì e ora”, non si può togliere razionalmente al gesto estremo la sua caratteristica primigenia e incontrovertibile di de-cisione-per-la-morte, anche se ottenebrata, favorita da concause, etc..
Che si può fare allora? Non esistono manuali ad hoc, ma vi è un sapere antico, che può aiutare, prima e senza le terapie onnipresenti nella società contemporanea, il sapere che tenta di ricostruire – insieme con la persona sola e a rischio di disperazione – i “perché” fondamentali, cioè le ragioni che devono essere pazientemente ricercate e possibilmente trovate, di una condizione, di una situazione, e le vie da esplorare per uscirne.
Occorre tornare al sapere fontale del discorso filosofico, irrorato dalla modalità logico-argomentativa, che è nel contempo stringente ed umile, e perciò può riuscire dove chi pretende solo di insegnare, o di individuare patologie e nevrosi, proprio perché si pone su un piano diverso dalla persona sofferente, non riesce a trasmettere proprio nulla. Né a convincere di alcunché chi si sta incamminando per la china dell’estrema decisione.
Riuscire a parlare della bellezza dell’istante che si vive, dell’interiorità del tempo, dell’inutilità dell’accumulazione, della santità di una vita faticata nel quotidiano, è l’unica via per aiutare qualcuno a riprendere il cammino che kantianamente gli spetta da quando è nato e proprio perché è nato.
E comunque mai va espresso alcun giudizio su chi giunge alla decisione estrema, poiché nessun moralismo tiene: infatti nessun umano conosce il cuore.
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Non patologizzare il suicidio non potrebbe anche significare, in casi rarissimi, riconoscerne la legittimità? Sappiamo che in antico a scuole che ne negavano in ogni caso la pratica (come quella platonica e neoplatonica: “Finché abbiamo un corpo non dobbiamo privarcene volontariamente”, Plotino) si contrapponevano scuole che, viceversa, in casi eccezionali (va ribadito), lo ammettevano, come quella stoica (celebri i gesti di un Catone o di un Seneca). Poi vi sono le situazioni borderline di chi, come Socrate, assume serenamente la cicuta, quando avrebbe benissimo potuto lasciare il carcere senza conseguenze. E Aiace in Euripide (credo): “Kaloos zen e kaloos tethnanai”, vivere bene o morire bene (lett. “in modo bello”), il che aprirebbe tutta la partita dell’eu-thanein, eutanasia, che oggi ha assunto tutt’altra valenza (rinuncia a vivere non davanti al disonore, come per gli antichi, ma davanti al dolore, anche spirituale, e il cerchio si chiude…).