che bello che era il cielo…
…quando eravamo bambini nella montagna. Se era d’inverno si andava con la zia a portare il latte munto alla latteria nel paese vicino, passando vicino al cimitero, e lì che paura!, ma poi le stelle su in cielo ci distraevano e ci incantavano… Quante stelle in cielo a dicembre, prima che venisse la neve e il freddo ci costringesse a stare chiusi nelle case di pietra, chiusi come si poteva, con mille spifferi, e se il vento mugghiava, la paura si aggiungeva a brividi di freddo. E poi si dormiva in due adulti e un bambino nel letto grande, sotto le coperte lasciate dagli Americani, e le pulci ci facevano visita, specialmente in certe notti, mio caro lettore.
Se la mucca doveva partorire noi bambini si andava a dormire nella stalla odorosa, sul fieno, finché non veniva il momento, e allora venivamo allontanati fino a che il vitellino non fosse venuto al mondo. Poi ce lo lasciavano guardare e accarezzare un po’, prima di tornare nei letti. La cantina e il granaio erano pieni dei prodotti del campo e del bosco, la frutta, i fagioli, le patate, e poi della macellazione del maiale, di cui nulla si butta via.
Le stagioni segnavano i lavori, la fatica quotidiana, le albe e i tramonti, la stanchezza, e tutti si lavorava secondo le proprie forze, e quelle dei bambini erano limitate; a volte si andava a prendere l’acqua su alla sorgente, con la paura di incontrare il grande orso dei boschi, pieni di colori e di odori.
La fienagione era l’attività più faticosa, in salita su prati ertissimi, sotto il sole, e non si vedeva l’ora che venisse il temporale o scendesse la sera, che veniva lentamente, prima avvolgendo i boschi scuri e poi le radure, e infine le case. Anche il sentiero si scuriva rapidamente alla fine di ottobre…
La raccolta delle patate e dei fagioli era un’altra fatica, ma necessaria, perché erano le provviste per il lungo inverno, ah, anche le castagne si raccoglieva: le castagne più grosse e le patate più piccole erano per il maiale, cosicché lui veniva su forte e sarebbe stato buonissimo… da mangiare. E il resto era per noi, le patate grandi e le castagne piccole da fare arrostire sul fuoco dello spolert.
La frutta, tanta frutta: mele di tutti i tipi, pere, susine, prugne, pesche, ciliegie, ogni primavera verso l’estate gli alberi fruttiferi si riempivano fino a dare l’impressione di cedere al peso, ma i rami erano flessibili e i più bassi servivano a noi bambini che potevamo raggiungere i frutti senza sforzo.
E poi l’uva e il vino, il buon clinto, che arrossava le dita, la vendemmia, la spremitura con il torchio, opera dello zio, che armeggiava sapientemente con quella macchina tonda e pesante. Le botti profumavano di quel vino dolce e amabile…
Noi bimbi avevamo le scarpe fatte con i pneumatici delle biciclette, e i calzini di lana grezza, e ci vergognavamo, però così è andata e siamo venuti su, anche ascoltando il rosario della nonna, biascicato nell’antico idioma, e la nanna subito dopo.
Chi era bambino a quei tempi ha vissuto gli spigoli di una vita piena di verità, mentre il racconto si fa memoria, e il narratore si fa scrittore, e la stagione cambia, mutano i colori del bosco e lungo le ripe del torrente, e forse le krivapete, le fate delle acque, escono dalle grotte per far posto al sonno profondo dell’orso, forse…
Il racconto ascoltato è come il sogno di un bimbo, ma non perciò è men vero, anzi è vero come può essere un racconto, anzi vero come il racconto di un sogno sotto quel cielo che era così bello.
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