Società e lavoro: le grandi tendenze per il tempo venturo
Un consiglio bibliografico
Jacques Attali, Survivre aux crises, Librairie Arthème Fayard, Paris 2009, trad. it. Emilia Bitossi, Sopravvivere alle crisi. Sette lezioni di vita, Fazi Editore, Roma 2010.
Jacques Attali passa per una specie di profeta contemporaneo. La sua prosa è connotata da un vago sentore apocalittico. Il suo nuovo libro Sopravvivere alle crisi, sette lezioni di vita, edito da Fazi, è una lettura interessante per chi vuole prendere confidenza con i mega trend, così come sono delineati dallo studioso francese, anche se talvolta il suo periodare appare un po’ troppo sentenzioso e apodittico. Lo troviamo stimolante, specie per un territorio come il nostro, sempre in bilico tra una visione conservatrice della vita e delle cose del mondo e lo sfondo di sfida globale che lo sta riguardando. Echeggiando il saggio cinese Lao Tse che diceva “…per sopravvivere, ci si deve ingegnare per cercare crepe nella sventura attraverso cui evadere…”, Attali afferma che l’uomo contemporaneo, e di più il lavoratore e l’imprenditore, deve barcamenarsi tra due eccessi psichici e morali, la paranoia e l’ipocondria, nel senso che ha da temere comunque qualcosa da proprio agire (ipocondria), e qualcosa dall’agire degli altri (paranoia). Ciò crea l’esigenza di mettere in atto alcuni principi, individuati nel numero di sette. Si può dire che la simbolica dei numeri sopravanza la contemporaneità. Il primo è il rispetto di sé, che mette nelle condizioni di non provare vergogna quando vi è la malasorte, né di esaltarsi quando le cose girano bene, poiché nel primo caso non si hanno tutte le responsabilità negative e nel secondo non si hanno mai tutti i meriti. Poi viene l’intensità, la quale giova a rendere possibili i progetti di medio e lungo periodo, ma a partire dalla consapevolezza del quotidiano, dalla verità del tempo presente. L’empatia è il terzo principio: essa contribuisce a cogliere ciò che di buono vi è nelle proposte altrui, compresi gli avversari, insegnando a non temere di avere torto. Il quarto valore è la capacità di resistere alle avversità: ciò predispone a creare piani alternativi, difese, riserve di risorse, per affrontare momenti di difficoltà variamente graduata: si pensi a come questo atteggiamento e comportamento sia importante, sia nelle crisi aziendali, sia nelle crisi personali. Al quinto posto Attali indica la creatività. Questa virtù insegna ad “approfittare” anche delle situazioni estreme di crisi, al modo dello judo, lotta che insegna ad appoggiarsi all’avversario (nel nostro caso la crisi) per superarlo. La creatività, insiste questo autore, si “allena” come il corpo, e, possiamo aggiungere con Tommaso d’Aquino, fa diventare habitus una semplice tendenza individuale. L’habitus è la virtù umana acquisita in modo stabile. Il sesto principio è l’ubiquità, che nulla ha a che vedere con capacità testimoniate da alcuni Santi, ma è la dote che consente di spostarsi sul terreno di chi ci sta sconfiggendo, senza perdere la dignità: non è detto che un’impresa italiana o un singolo imprenditore debbano essere sempre i capifila: possono infatti anche accettare un ruolo comprimario in attesa di ripartire. Il settimo e ultimo valore indicato è quello del pensiero in grado di rivoluzionare se stesso. È la capacità di mantenere il rispetto di sé cambiando tutto, come quando capita di cambiare lavoro o di riconvertire un’impresa. È la virtù che guida nel segno della discontinuità, la più forte alleata nei momenti in cui si è più incerti e indifesi. Si potrebbe aggiungere che manca uno sfondo, quello di un’etica chiaramente declinata a favore dell’uomo. In questo senso il brillante pensiero dello studioso risente di una carenza, cui noi in Italia possiamo rimediare, recuperando la nostra tradizione sapienziale laica e cristiana.
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